Chi alimenta la jihad "europea" in Siria
Più di 1100 jihadisti sono partiti da Paesi europei per andare a combattere in Siria la loro guerra santa. È un fenomeno le cui dimensioni non hanno precedenti, alimentato da predicatori di odio, che imperversano su Internet coi loro sermoni.
Ondate di siriani si riversano in Libano, Turchia, Giordania e in Occidente per salvarsi la vita. Ondate di musulmani da ogni parte del mondo, compresa l’Europa, affluiscono in Siria per combattere la jihad ovvero per cercare la morte. Si potrebbe parlare di flussi migratori incrociati e opposti. Al luglio 2013 la popolazione della Siria si attestava, secondo il World Factbook della CIA, sui 22.500.000.
A partire dall’avvio di quella che inizialmente era una vera ribellione popolare nei confronti del regime di Assad e che con il passare del tempo è diventato un conflitto globale, sono circa 2.500.000 i siriani che hanno lasciato il paese. Di questi circa 250.000 si sarebbero riversati in Giordania, 300.000 in Libano, 200.000 in Turchia e 20.000 in Europa. Il condizionale è d’uopo perché i numeri non sono certi, molti spostamenti sfuggono purtroppo all’ufficialità della emigrazione legale. Si tratta di cifre indicative e significative che preoccupano e stanno mettendo in ginocchio in modo particolare gli stati confinanti, quali il piccolo e martoriato Libano e la Giordania, il cui governo sta conducendo una sotterranea lotta per la sopravvivenza.
Allarmante per il presente, ma soprattutto per il futuro, è il numero di “combattenti” che partono dall’Europa alla volta della Siria. Il 27 novembre 2013 il Washington Post ha pubblicato uno studio a cura di Thomas Hegghammer che riporta dati, raccolti da fonti aperte e di intelligence, sul “contributo” europeo alla jihad levantina. Dalla Francia sarebbero partite tra le 200 e le 400 persone, dalla Germania 200, dal Regno Unito tra le 200 e le 300, dal Belgio tra le 100 e le 300, dalla Spagna 95, dalla Danimarca 65, dalla Bosnia 60, dall’Austria 57, dai Paesi Bassi tra le 50 e le 100, dall’Italia tra le 45 e le 50, dalla Norvegia tra le 30 e le 40 e dalla Svezia sempre tra le 30 e le 40. Ne consegue che come minimo sono partiti 1100 combattenti. Lo studioso sottolinea che con molta probabilità anche altri paesi europei, per i quali non ha potuto reperire dati, sono coinvolti dal fenomeno. La tabella che offre la classifica dei suddetti paesi in base alla popolazione musulmana residente vede ai primi posti Danimarca, Norvegia, Belgio e Austria e agli ultimi Francia, Bosnia e Italia.
Hegghammer commenta: «Possiamo concludere da questo semplice esercizio che il numero di combattenti europei in Siria è preoccupantemente elevato e non ha precedenti dal punto di vista storico». Basti pensare che nel 2007 Mohammed M. Hafez nel saggio Suicide Bombers in Iraq. The Strategy and Ideology of Martyrdom (United States Institute of Peace Press, Washington) riportava all’Appendice 2 l’elenco degli attentatori suicidi in Iraq a partire dal 2003 il cui numero ammontava a 102 di cui 15 di provenienza europea. L’analista prosegue: «Inoltre, se Francia, Germania e Regno Unito presentano i principali contingenti di combattenti in Siria, Danimarca, Norvegia e Belgio hanno la percentuale più alta rispetto alla propria popolazione. Considerato che le risorse delle forze di polizia sono limitate queste nazioni potrebbero avere maggiori problemi rispetto ai vicini europei di dimensioni più grandi».
La riflessione totalmente condivisibile deve inoltre tenere presente la totale mancanza di confini nell’area Schengen e quindi l’estrema mobilità dei jihadisti al loro rientro. Ma non solo. Ebbene, ai flussi migratori incrociati di cui sopra si aggiungono sia la globalizzazione dell’ideologia jihadista grazie alla capillarità di internet sia i predicatori ambulanti che percorrono in lungo e in largo il Vecchio continente per difendere la “causa del popolo siriano”. In questi giorni, ad esempio, sul territorio italiano sono presenti, per iniziative legate all’associazione internazionale Islamic Relief, lo shaykh siriano Ratib al-Nabulsi e il kuwaitiano Tareq al-Suwaidan. Il primo è predicatore sufi, schierato con l’opposizione, le cui idee sulla jihad sono ben chiare sin dal 2009. In un sermone del venerdì pubblicato sul suo sito personale anche in francese e in inglese si possono leggere le sue opinioni riguardo la cosiddetta “guerra giusta”: «Fratelli, la jihad nell’islam è stato legiferato per stabilire la verità, rifiutare l’ingiustizia, realizzare la giustizia, la pace e la sicurezza e per rafforzare la misericordia con la quale Maometto – su di Lui la pace e la benedizione di Allah – è stato inviato agli uomini del mondo per farli uscire dalle tenebre verso la luce. Questa idea distrugge tutte le tipologie di terrorismo perché la jihad è stata legiferata per difendere la patria e contro l’occupazione dei territori, il saccheggio dei tesori, contro l’occupazione coloniale che caccia le persone dalle proprie dimore, contro coloro che violano le promesse e per seminare discordia tra i musulmani […]».
Interessante è la riflessione di al-Nabulsi sul termine "terrorismo", in arabo irhab: «l’Occidente pratica quella che si può definire l’appropriazione dei termini islamici. Conferisce a questi termini un altro significato e li traduce con nozioni occidentali e questo si traduce in una cattiva interpretazione e alla perdita dei significati che rappresentano il contenuto del pensiero. La parola terrorismo ha un’origine islamica, è una parola coranica il cui obiettivo è il rifiuto dell’aggressione, la guida delle persone sulla retta via e impedire la propagazione della corruzione sulla terra. Allah, Egli è l’Altissimo, ha detto: “Combattete per la causa di Allah contro coloro che vi combattono” (Cor. II, 190); “Preparate, contro di loro, tutte le forze che potrete raccogliere e i cavalli addestrati per terrorizzare il nemico di Allah e il vostro” (Cor. VIII, 60). Voi dovete dissuaderli dall’attaccarvi e quindi può essere che non dobbiate mai ricorrere a questa arma, ma il fatto di disporre di quest’arma forte, impedisce ai nemici di attaccarvi. […] Quindi il terrorismo deve essere contro il nemico di Allah e dei credenti, contro gli ipocriti che non conoscono la verità. […]».
È evidente come al-Nabulsi giustifichi il ricorso alle armi in Siria ed è altrettanto evidente, da quanto appena riportato, come ad alternarsi a lui sia Tareq al-Suwaidan, leader dei Fratelli musulmani in Kuwait. Il motto dell’internazionale dei Fratelli musulmani fondata da Hasan al-Banna nel 1928 in Egitto è proprio il versetto 60 della sura VIII citato da al-Nabulsi. Al-Suwaidan è un predicatore molto seguito ed è uno dei principali sostenitori della cosiddetta “cyber jihad” e un propagatore di idee anti-occidentali e jihadiste. Nel giugno 2011 in un’intervista rilasciata alla televisione Al-Quds ha dichiarato: «Esistono fenomeni chiamati jihad mediatica, jihad politica e una forma di jihad alla quale invito i giovani, la jihad elettronica. Alcuni dei nostri giovani sono estremamente intelligenti. Spero che un gruppo di hackers si riunisca e inizi la resistenza attraverso Internet, attaccando siti israeliani e sionisti, distruggendoli elettronicamente. Questo è meglio di 20 operazioni di jihad». Nel 2006, riferendosi alla questione palestinese, aveva dichiarato: «Dobbiamo sostenere la resistenza armata a Gaza, e se possibile, dobbiamo diffonderla in Cisgiordania e anche in Palestina. Se possibile dobbiamo farlo. In terzo luogo, le nazioni confinanti devono intraprendere seriamente la resistenza verso l’entità sionista. Grazie a Dio, ci sono segni positivi. Questa deve essere una missione per l’intera nazione islamica. Tutti devono sostenere questa causa. La cosa più pericolosa per i musulmani non sono le dittature. I più pericolosi sono gli ebrei. Sono i più pericolosi. Sono il principale nemico».
Era il 2006 e la questione siriana non era ancora all’orizzonte. Purtroppo qualsiasi predicatore islamico che creda nella jihad, intesa come lotta armata difensiva come al-Nabulsi, o nella resistenza (muqawama) al nemico dell’islam, non crede nella sacralità della vita. Non crede né nella sacralità della vita del nemico né in quella dei correligionari che hanno il dovere di combattere e quindi morire sulla via di Allah. È questo il motivo per cui è lecito domandarsi perché autorizzare la presenza di persone come al-Nabulsi e al-Suwaidan sul territorio europeo. Il loro pensiero è apparentemente meno pericoloso di quello dei jihadisti conclamati, come ad esempio Anjem Choudary nel Regno Unito, ma in un momento in cui un elevato numero di jihadisti parte dall’Europa non è necessario diffondere idee che portano allo scontro e incitano alla resistenza armata. È un dato di fatto che in Germania, e non solo, le seconde generazioni di musulmani sono attratte sempre più dalla ideologia salafita e jihadista. Per il bene dei giovani musulmani europei sarebbe interessante e utile diffondere e promuovere le idee di quei teologi riformisti che invitano all’incontro e non allo scontro, all’integrazione e non all’esclusione, di quei teologi come l’egiziano Gamal al-Banna che nel 2002 scriveva che «il jihad islamico necessario oggi è il jihad contro l’arretratezza, il jihad della vita sulla via di Allah».