Cheney, il vice da demonizzare (per il futuro)
Uscita nel 2018, la pellicola Vice. L’uomo nell’ombra, di Adam McKay, vuole essere la biografia di Dick Cheney, vicepresidente ai tempi di George W. Bush. Un film criptico per chi non conosce i meccanismi politici degli Stati Uniti, ma che serve a una certa narrativa di sinistra, dominante a Hollywood e che ben conosce una massima di Orwell…
Lo scorso 10 ottobre, sabato (per maggior visibilità), in prima serata, Rai3 (e chi se no?) ha mandato in onda il film Vice. L’uomo nell’ombra, del 2018. Scritto e diretto da tal Adam McKay, vuole essere la biografia di Richard - Dick - Cheney, che fu vicepresidente di George W. Bush. Il film in sé non è granché, anzi è piuttosto noioso e criptico per gli spettatori non consueti con i meccanismi politici ed elettorali degli Stati Uniti. Interpretato da Christian Bale (uno dei tanti Batman) e Amy Adams (già fidanzata di Superman), è il classico esempio di narrazione di sinistra.
Uno potrebbe dire: ma Cheney è già uscito di scena, e da un pezzo, qual vantaggio può trarre la sinistra dem (o liberal, come dicono colà, o progressista come dicono anche in Cina) da un suo ritratto a tinte fosche? Lo vedremo tra poco. Intanto, diciamo subito che Cheney, repubblicano, non ha le nostre simpatie, specialmente per il suo ruolo nell’inutile (per chi scrive) Guerra del Golfo (e ciò che è inutile non di rado è anche dannoso). Nel film si parla delle disastrose conseguenze di quella guerra e anche di chi se ne è avvantaggiato. Condivisibile.
Cheney ha due figlie, di cui una lesbica dichiarata. Ma si oppone alle nozze gay, così come l’altra figlia, Liz, senatrice repubblicana (però oppositrice di Trump, ma questo il film non lo dice). Cheney, nel film, comincia la sua carriera al tempo di Nixon e percorre tutti i presidenti successivi. Tranne, chissà perché, Clinton, che nel film non viene neppure menzionato (e su di lui ci sarebbe, eccome, materia per fiction). Nixon, come sappiamo ormai a iosa, fu trombato dallo scandalo Watergate. Sul quale è stato fatto un film, postumo, non a caso subissato di Oscar, Tutti gli uomini del presidente (titolo che orecchia una filastrocca di Lewis Carroll, quello di Alice), con Robert Redford e Dustin Hoffman nei panni dei giornalisti del Washington Post che portarono alla luce l’affaire. Il Washington Post, per chi non lo sapesse, è l’equivalente della nostra Repubblica negli States. Non a caso è il vangelo quotidiano dei sinistri americani e, sempre non a caso, è stato celebrato in un apposito film, The Post, con Meryl Streep e altri attori engagé (sempre per lo stesso lato). Acclamati come eroi, i suoi giornalisti e i suoi reportage rimbalzano continuamente a Hollywood, la più grande macchina di propaganda di tutti i tempi, che conosce bene la massima di Orwell: «Chi controlla il passato controlla il presente. Chi controlla il presente controlla il futuro».
Infatti, bastano solo cinque anni perché un adolescente prepubere si trasformi in un votante. Quest’ultimo necessita, dunque, di istruzione. Non c’era ai tempi di Nixon o di Cheney, perciò deve essere edotto. E cosa c’è di meglio di un film? Naturalmente, pure addosso al film su Cheney è piovuta una valanga di premi, anche se pochissimi vanno a controllare se magari non si tratti di premi per «miglior trucco e acconciatura» (Christian Bale invecchiato, ingrassato e stempiato; vedi foto).
Ovviamente, Cheney e la sua famiglia hanno protestato, ma non più di tanto: sanno bene che una querela non farebbe che amplificare la visibilità del film. Come lo sa bene, per esempio, anche la Chiesa cattolica, che ha imparato in certe circostanze la resilienza (vocabolo di conio moderno e chissà perché dilagato) e a fare a malo tiempo cara buena, come dicono gli spagnoli (noi diciamo «buon viso a cattivo gioco»). Ultima considerazione: i cinici e quelli senza princìpi hanno ben capito che per far carriera devi intrupparti a sinistra. E se c’è un ambiente in cui partendo da zero si può arrivare ai vertici di fama & soldi è quello mediatico-artistico. Sommate le due cose.