Checkpoint Cairo
Il Foglio spiega Perché proprio ora, dopo cinque anni, ha funzionato
lo scambio di prigionieri tra Israele
e Hamas
l Cairo, dal nostro inviato. Kristen Chick è corrispondente per il Christian Science Monitor, è appena tornata da Gaza, dove “in un anno non è cambiato nulla, soltanto le bandiere verdi di Hamas sono più sbiadite e più lacere e sì, un’altra cosa è cambiata: la popolazione non ne può davvero più del Partito islamico palestinese”. Ragioni pratiche: l’amministrazione è una delle peggiori che ricordano, anche perché si porta via con le tasse più della metà dei guadagni di ogni famiglia e non offre lo stesso livello di prosperità dei vicini che abitano nella Cisgiordania sotto il controllo dell’Anp. A questo si aggiunge che il governo di Hamas impone una censura politica perversa, come il divieto il mese scorso di manifestare in solidarietà dei palestinesi presi a cannonate dall’esercito siriano nelle loro case nel porto di Latakia, o il divieto di esultanza il giorno della richiesta di un seggio palestinese alle Nazioni Unite, che è stato un momento unificante e galvanizzante per tutti i palestinesi, tranne che nella Striscia: un ristoratore che trasmetteva il discorso di Abu Mazen in pubblico è stato arrestato.
A questo si aggiunga anche il fattore rischio di guerra, sempre presente, per la politica di continue provocazioni di Hamas contro il gigante militare di Israele al di là della rete, e le lotte intestine con i gruppuscoli sunniti più fondamentalisti di Hamas, come i salafiti che hanno ucciso il volontario italiano Vittorio Arrigoni, e in ogni caso il rigore asfissiante della regola islamista. Tutto questo mentre Abu Mazen, cacciato dal suo ufficio a Gaza nel 2007 dagli uomini di Hamas armi in pugno, oggi riceve la standing ovation dei leader del pianeta riuniti in assemblea a New York, e i palestinesi che vivono e trafficano nel territorio controllato dall’Anp non hanno sopra il capo il rischio di un raid aereo israeliano o di una punizione per avere infranto il codice di comportamento di Hamas e, soprattutto, vivono in condizioni di relativa felicità economica: gli Stati Uniti ora vogliono tagliare 200 milioni di dollari in finanziamenti, ma i regni arabi del Golfo con i loro petrodollari stanno correndo in aiuto del primo ministro, Salam Fayyad, e del suo piano per la pace – riassumibile in: “Chi sta bene ripudia la guerra”.
Se c’era un momento adatto, adattissimo per Hamas in cui giocare la carta della liberazione dei prigionieri era questo: nelle carceri israeliane c’è uno sciopero della fame che ogni giorno finisce sulle prime pagine dei giornali palestinesi. I mille liberati fanno parte di entrambe le fazioni, Hamas e Fatah, e il loro ritorno a casa sarà un successo d’immagine anche fuori dai confini della Striscia. “Hamas dimostra di nuovo di avere carte da giocare e di poterlo fare alla velocità della luce – dice alla Reuters Zakaria al Qaq, un commentatore politico palestinese – il gioco è così, si vince portando a casa risultati. Non è questione di elezioni, che sono lontane, ma è una questione di credibilità”.
Ieri sera il portavoce di Hamas vantava anche la liberazione di Marwan Barghouti, il popolare leader di Fatah considerato il potenziale successore di Abu Mazen – anzi, il temibile rivale: sarebbe stato proprio un bel favore al leader palestinese, quello di Hamas – e anche di Arwan Barghouti, il superterrorista di Hamas in carcere con 67 ergastoli per le bombe costruite. Nessuno dei due è invece sulla lista dei liberati, anche se per lungo tempo Hamas li aveva inseriti tra i prigionieri a cui proprio non poteva rinunciare, e per questo l’accordo si era arenato. Segno che adesso Hamas aveva più bisogno di Israele di fare questo scambio.
Da Caracas, dove si trova in tour diplomatico per conquistare l’appoggio di voti importanti alle Nazioni Unite, Abu Mazen ha abbozzato e ha detto a Karl Vick di Time che lo segue passo passo – nessuno segue i leader di Hamas, ma ieri Khaled Meshaal è atterrato al Cairo – che “va benissimo, ci mancherebbe altro. Il rilascio di mille prigionieri è una buona cosa per noi e per le famiglie”. Dice di non essere preoccupato che Hamas si copra di gloria nello scambio, anche se c’è rivalità politica: “Che siano con noi o contro di noi, sono palestinesi. La liberazione di prigionieri è nell’interesse di tutti i palestinesi”. Quanta magnanimità, sapendo che la luce tornerà su di lui – è già su di lui – per tutti i prossimi mesi, grazie alla campagna per la fondazione dello stato di Palestina.
L’Egitto guadagna dall’accordo. Soprattutto ora che il Consiglio militare di al Mushir – il maresciallo di campo – Tantawi ha scoperto quanto è difficile governare e vuole allo stesso tempo conservare il potere e ha bisogno di proporsi come interlocutore credibile agli alleti in occidente. Ancora di più dopo il massacro di cristiani al Cairo domenica sera. Avere fatto da broker all’accordo è un grosso punto a proprio favore. Il nome da tenere d’occhio è quello del ministro dell’Intelligence, Murad Muwafi. I prigionieri e anche Shalit saranno trasferiti da Israele e da Gaza al Cairo, che nelle prossime settimane sarà fisicamente il luogo dello scambio, prima del loro ritorno a casa.
I generali egiziani sono un disastro in tutto il resto: ieri nella conferenza stampa dopo il massacro di cristiani hanno negato l’evidenza, hanno negato i blindati in marcia sopra i manifestanti, anche se ci sono video chiari, hanno negato qualsiasi responsabilità dei soldati e non hanno voluto dire quanti sono davvero morti (forse nessuno: sarebbe stata tutta una grande menzogna di stato). Ma avrebbero confermato che esiste una linea di continuità con i tempi di Mubarak e del suo capo dei servizi Omar Suleiman, che non s’è persa la capacità di triangolare fra americani, israeliani e Hamas.
In questo gioco di sponda si sono fatti avanti anche i Fratelli musulmani. Due giorni prima della visita ufficiale del capo del Pentagono, Leon Panetta, al Cairo, alcuni diplomatici americani si sono incontrati con discrezione con rappresentanti della Fratellanza, un primo contatto non segreto che è servito da ponte tra la Casa Bianca e Hamas, che della Fratellanza egiziana è una costola nata negli anni Ottanta. Due giorni dopo, mentre Panetta parlava con gli alti generali, un altro rappresentante di Israele, il portavoce personale del primo ministro, David Meidan, in un angolo separato del Cairo, incontrava il comandante delle brigate Ezzedin al Qassam, ala militare di Hamas, Mohammed Jabry, per mettere sulla carta i dettagli finali dello scambio asimmetrico di prigionieri. Due giorni fa un’altra delegazione israeliana è arrivata senza troppo rumore nella capitale egiziana.
L’America ci guadagna, pure. L’Amministrazione Obama ricorre ancora una volta alla diplomazia con le stellette, come fa in Pakistan, mandando il neo segretario alla Difesa a fare da sensale decisivo – di inviati speciali per il medio oriente nessuno sente più parlare. La capacità americana di influire e di contare di nuovo nell’area del medio oriente, mai così in mezzo alle sue doglie, come le aveva definite il segretario di stato di George W. Bush, Condoleezza Rice, riprende quota.
Israele, come spiega Giulio Meotti, vince la battaglia simbolica più importante, in una terra dove non c’è nulla di più materiale dei simboli. Il premier Bibi Netanyahu da un anno almeno sembra prigioniero del suo governo, formato con il contributo della destra, che però non vuole sentire parlare di compromessi sugli insediamenti e di sospensione della costruzione di nuove case oltre la Linea verde pre 1967 – che i palestinesi considerano la linea di confine su cui cominciare a negoziare per la creazione del loro nuovo stato. Riportando a casa Shalit, Netanyahu può dire di avere vinto il negoziato con Hamas. Anzi, per paradosso, di avere avuto più successo con loro che con i cugini moderati dell’Anp. Allo scambio si sono opposti tre ministri della destra, compreso quello degli Esteri Avigdor Lieberman, altri 26 hanno votato a favore.
Secondo Ron Ben-Yishai, il solitamente ben informato e severo esperto militare del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, il merito dell’accordo va riconosciuto a molti architetti. Il capo dello Shin Bet, il servizio di spionaggio interno di Israele, Yoram Cohen, e il capo delle forze di difesa israeliane, il generale Benny Gantz, hanno dichiarato di recente che era impossibile estrarre Shalit da Gaza con un’azione militare. Entrambi si sono consumati sulle opzioni possibili ed entrambi hanno raggiunto la stessa conclusione: uno scambio di prigionieri era l’unica soluzione praticabile. Il ministro della Difesa, Ehud Barak, ha esaminato le loro raccomandazioni e ha suggerito al primo ministro Netanyahu di seguire la saggezza del suo predecessore Yitzhak Rabin: se non è possibile riportare a casa gli israeliani con un’azione di guerra, allora devono essere recuperati con un accordo, per quanto difficile possa essere. Il ministro ha avuto un ruolo decisivo nel convincere il premier, con l’appoggio dello Shin Bet e del nuovo capo del Mossad, Tamir Pardo. Cohen ha dato ampie garanzie che i suoi uomini saranno in grado di tenere sott’occhio gli elementi più pericolosi anche dopo la liberazione.
Per cinque anni, Shalit in ostaggio di Hamas è stata la situazione più bloccata dentro lo stallo tra israeliani e palestinesi. Quest’anno tuttavia il mondo arabo è stato messo sottosopra dalle proteste dei cittadini per le condizioni di povertà e contro il potere di regimi blindati. Si tratta di un movimento così profondo che è ancora presto per dire come andrà a finire, ma sta producendo effetti. Hamas si è mossa perché sta rompendo con l’asse formato da Siria e Iran. La leadership sta anche fisicamente abbandonando Damasco, colpevole di reprimere con ferocia la Fratellanza musulmana siriana, è stata punita dall’Iran con il taglio dei fondi e ora sta cercando con discrezione nuovi sponsor, in Egitto o nel Qatar, che già è il padrino dei nuovi islamisti al potere in Libia. L’alone di gloria di Abu Mazen che ha spinto Hamas a reagire è anch’esso una conseguenza della primavera araba. Vale anche per Israele. Il primo ministro Netanyahu è consapevole che, considerato che è impossibile prevedere che cosa succederà in Egitto e in Siria, questa finestra di opportunità andava sfruttata.
Da Il Foglio del 17 ottobre 2011