Che meraviglia quelle suore di Torino
Una grande mostra sull’arte
della carta lavorata barocca
e religiosa ne valuta gli influssi
su certe forme di arte moderna. Le paperoles, per esempio,
quei reliquiari sui generis
dal profondo significato teologico antiprotestante.
Chi verrà a Torino per una delle prossime feste - seguendo la propaganda, o la realtà, che vede il capoluogo piemontese reinventarsi sempre di più da città industriale a città turistica - non deve mancare d’includere nel suo itinerario la Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli al Lingotto, ex fabbrica un po’ fuori del centro rinata come grande centro di shopping e cultura. Al di là della piccola ma interessante collezione permanente - che va da alcuni grandi paesaggi veneziani di Giovanni Antonio Canaletto (1697-1768) fino a un’intera sala dedicata a Henri Matisse (1869-1954) -, fino al 2 settembre la Pinacoteca ospita la mostra Meraviglie di carta. Devozioni creative dai monasteri di clausura. La mostra intende inserirsi in un ciclo dedicato al collezionismo, proponendo i risultati di una vita da collezionista di un anonimo torinese, insieme ad alcuni pezzi che appartengono invece alla fotografa americana Nan Goldin, che presenta pure alcuni suoi scatti inediti, appositamente pensati per questa esposizione.
Certamente la mostra torinese vuole ritornare su un argomento già trattato in altre esposizioni: la paradossale influenza dell’arte della carta lavorata tipicamente barocca e religiosa su certe forme di arte moderna. Ma al cattolico interessa altro. I centocinquanta pezzi esposti - opere in carta, in cera, minuziose composizioni di piccole conchiglie o pietre, lavori che hanno richiesto una vita - testimoniano lo straordinario amore delle suore di clausura che dal Concilio di Trento al XIX secolo hanno creato questi minuscoli capolavori per Gesù Cristo e la Madonna, cui sono dedicati. E, come fa notare nel catalogo che accompagna la mostra Bernard Berthod, Consultore della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, anche la "romanità" di queste suore, dal momento che il tema di Roma e del Papa ritorna continuamente nei loro lavori: e non soltanto negli Agnus Dei, piccoli medaglioni di cera bianca destinati a essere benedetti dal Pontefice.
La nozione che sta al centro della mostra torinese è quella delle paperoles, espressione che indica una particolare tipologia di reliquiario a utilizzo domestico o conventuale, tradizionalmente realizzato in carta da suore di clausura. Nella composizione, intorno alla reliquia, entrano cere, avori, vetri, cristalli, madreperla. Ispirandosi alla tecnica orafa della filigrana, le paperoles erano prodotte arrotolando su se stesse striscioline di carta dorata e colorata secondo motivi per lo più a soggetto floreale, e successivamente impreziosite da perline, conchiglie, coralli, piccole pergamene, ritagli di stoffa, pezzetti di vetro, frammenti ossei attribuiti ai santi, e anche "pasta di tutti i santi", un impasto di cartone mescolato a terra delle catacombe in cui si pensa siano stati seppelliti i martiri.
La mostra torinese insiste giustamente sul significato teologico delle paperoles e sul loro collegamento con il Concilio di Trento e la Riforma cattolica. Dopo che i protestanti avevano criticato e rifiutato il culto delle reliquie, la Riforma post-tridentina lo riafferma e lo diffonde nelle comunità religiose e nelle stesse famiglie, corredandolo però di riferimenti e contesti artistici che ne costituiscono una vera e propria spiegazione teologica, intesa a evitare ogni superstizione.
Certamente le paperoles appartengono a pieno titolo all’arte barocca, ma - come la mostra fa notare - non spariscono nel Secolo dei Lumi, il Settecento, in cui i conventi di clausura - quando non sono chiusi a forza - non smettono affatto di svolgere la loro opera consueta. E nel secolo XIX da una parte l’archeologia sacra, che scopre nuove tombe di martiri, dall’altra la rivalutazione della devozione popolare con la Restaurazione dopo la Rivoluzione Francese rilanciano insieme le reliquie e il gusto delle «paperoles», che decadrà, lentamente, solo nel Novecento. E paradossalmente questi oggetti - criticati con non poca leggerezza da qualche teologo progressista - saranno rivalutati dai critici d’arte moderni come esempio di un’arte «povera» ma profonda. Povera quest’arte lo è senz’altro. Ma è anche veramente profonda: in ogni opera sembra di sentir risuonare l’amore di generazioni di suore per Cristo e per la Chiesa.