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LA LECTIO DI Müller ALLA BUSSOLA

Che cos'è la Grazia? Un dono fatto per amore

"Il nostro rapporto con Dio non si fonda nell’autonoma costituzione di sé che a lui si oppone, bensì – nell’atto di accogliere e di ringraziare – nell’essere creati come incessante ordinazione all’amore che è Dio stesso". Che cos'è la Grazia? La lectio del cardinal Müller alla Giornata della Bussola.

Documenti 04_10_2020

Pubblichiamo di seguito la lectio magistralis del prefetto emerito della Congregazione per la Dottrina della Fede, cardinal Gerhard Müller pronunciata ieri a Palazzolo sull'Oglio nel corso della Giornata della Nuova Bussola Quotidiana "Solleviamo lo sguardo". Prima della conferenza il cardinale ha celebrato la Messa di Santa Maria in Sabato e tenuto l'omelia. 

Che cos’è la grazia?
Il piccolo Maximiliano, che battezzai cinque anni fa, mi chiese recentemente: «Zio Gerhard, che cos’è la grazia?».

Aveva appena ascoltato attentamente la mia predica in una Messa trasmessa in diretta streaming durante la crisi del Corona virus. E con risolutezza si era fissato sul concetto che comprende nella sua unità e totalità il nostro rapporto con Dio. Mentre ero abbastanza travagliato dal compito di riassumere la biblioteca, accumulata nella mia testa, sul concetto di persona e di natura nella teologia trinitaria, nella cristologia, nell’antropologia e nella dottrina della grazia, suo padre mi salvò con la formula: la grazia è un dono.

Giacché questa definizione ci sembrò eccessivamente riferita all’“oggetto” e alla “sostanza”, cercammo di illustrare il vocabolo “grazia” con l’immagine dello svolgimento di un’azione. In maniera grammaticalmente non del tutto corretta – ma tale da soddisfare il fanciullo – ci esprimemmo in questo modo: la grazia è come quando uno è per te buono perché gli piaci molto. Papà e mamma ti vogliono molto bene. Tuttavia Dio, che tutti ci ha creato, ci vuole ancor più bene. Come i fiori crescono e maturano soltanto alla luce e al calore del sole, così anche noi uomini possiamo vivere qui sulla terra soltanto con la grazia di Dio, per andare un giorno in Paradiso. Grazia significa dunque in poche parole: fare qualcosa di buono per amore a un’altra persona.

Non menziono questa simpatica prova della piena presenza di uno spirito nel bambino per dimostrare la mia capacità di educatore religioso di trovare il modo più semplice di spiegare un contenuto estremamente complesso. Non si tratta qui, infatti, della comunicazione di un sapere quantitativo, bensì di una conoscenza qualitativa riguardo alla totalità dell’essere-uomo in rapporto a Dio, ossia alla fonte che fa sgorgare da sé ogni cosa e al fine dell’essere e del conoscere che tutto comprende.

Infatti, il nostro rapporto con Dio non può dipendere dalla capacità dell’intelligenza strumentale, dallo stato della scienza e della tecnologia, dal grado di sviluppo nell’adolescenza, dalla maturità morale del carattere, dall’efficienza del pensiero discorsivo o dai talenti messi in pratica nel corso dell’esistenza.

Proprio perché Gesù fa di un bambino l’esempio per ogni aspirante al regno dei cieli (Mc 10,13-16), il nostro rapporto con Dio non si fonda nell’autonoma costituzione di sé che a lui si oppone (un ateismo postulatorio), bensì – nell’atto di accogliere e di ringraziare – nell’essere-creati come incessante ordinazione all’amore che è Dio stesso. Dio dà esecuzione alla propria essenza nella reciproca relazione delle tre Persone divine. Essenzialmente la grazia è dunque l’autocomunicazione di Dio (gratia increata) attraverso la quale Egli ci rende propri figli e figlie in Cristo per adoptionem, in maniera tale che Dio abiti in noi e la vita divina sia la nostra eredità eterna (gratia creata, infusa, sanctificans). Noi non soltanto stiamo in un nuovo rapporto con Dio il quale avrebbe soltanto rivolto nuovamente a noi il suo favore (favor Dei) e, dunque, avrebbe mutato se stesso nel suo rapporto con noi. Dio ha fatto di più, ha fatto di un perduto peccatore il suo amato figlio e amico e di un essere destinato alla morte una nuova creatura. Dio ci ha trasformati e rinnovati. Non si è riconciliato Lui con noi, ma ci ha riconciliati con Lui (2Cor 5,18-19). L’aspetto essenziale della natura umana è il suo essere creato a immagine di Dio (Gottebenbildlichkeit) che, in termini teologici, è ordinato alla figliolanza divina la quale trova compimento nel riconoscimento di Dio: «ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto» (1Cor 13,12).

L’orientamento dell’uomo alla comunione con Dio
Gli elementi costitutivi categoriali della creatura dotata di spirito, che noi, ad extra, chiamiamo natura cosmica e, ad intra, essenza-natura psico-fisica umana nella sessualità maschile e femminile, sono inclusi nell’orientamento trascendentale della persona a Dio. L’uomo, in virtù della sua natura spirituale, è ordinato dinamicamente alla comunione personale con Dio nell’amore. Egli, tuttavia, non raggiunge questo scopo da se stesso, ma tramite il libero farsi incontro di Dio. Non possiamo dunque in alcun modo definire l’essere dell’uomo nel mondo senza la sua naturale aspirazione all’unione sovrannaturale con Dio nella sua verità e amore. In questo senso l’assetato non ha alcun diritto all’«acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14). Nel momento, tuttavia, in cui questa gli è data in amorevole libertà, si muta in segno e strumento della bontà di Colui che appaga il suo desiderio di eternità. In ciò diviene evidente il Logos, il senso dell’essere e dell’invio del Figlio da parte del Padre, «perché abbiano la vita e l’abbiano in

L’uomo è più – già soltanto nella prospettiva metodologica delle condizioni empiriche del suo essere-nel-mondo –  dell’insieme delle sue sensazioni psichiche (David Hume), dell’insieme delle condizioni socio-politiche interattivamente collegate con la sua coscienza (Karl Marx) oppure  – all’interno di una riduzione  atomistica e meccanicistica – della semplice somma delle sue componenti fisiche (Democrito, La Mettrie, Helvetius). Il naturalismo postcristiano dell’Epoca moderna, che riduce positivisticamente l’essere alla materia e può solo ricavarne il significato funzionale di mezzo e di “volontà di potenza” (Nietzsche), è destinato a privare la ragione, come capacità di disserrare il senso dell’essere, del suo orientamento trascendentale, di modo che rimane soltanto una ragione strumentale. Conseguenza di questo immanentismo è una serie di riduzioni dell’uomo alle sue condizioni esistenziali interne ed esterne, riduzioni che disattivano il fondamento elargitore di essere della sua sostanza di persona dotata di natura spiritualmente libera. In base a ciò l’uomo è così definito: «L’uomo non è altro che …» una macchina complessa, un animale altamente sviluppato, un fascio di geni e di pulsioni, un computer ad alta prestazione, lo stadio organico che precede un’intelligenza artificiale capace di più elevate prestazioni. Sempre è qui però negato l’elemento decisivo dell’essere-uomo, ossia: la dignità di persona.

Un umanesimo senza Dio?
Per chi accetta le premesse di un monismo idealistico e materialistico, il Cristianesimo, che rappresenta la rivelazione sovrannaturale del mistero della volontà salvifica universale di Dio nell’incarnazione, nella morte sulla croce e nella resurrezione di Cristo, potrebbe essere ancora soltanto giustificato come religione naturale, sia nella forma di una religione dell’umanità o di un’etica razionalistica sia nella forma di una fredda etica dei doveri oppure nella variante di un’etica edonistica della situazione. Significativi a tal proposito sono già i titoli di scritti deisti e illuministi come Christianity not mysterious (1696) di John Toland o Christianity as old as creation, or the Gospel a republication of the religion of nature (1730) di Matthew Tindal e, infine, Die Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft (1793) di Immanuel Kant. Qui il Cristianesimo era pensato solamente come la somma manifestazione di una cultura in continuo progresso e orientata a un compimento immanente, e ciò non poteva avvenire se non rinunciando alla sua veste sovrannaturale vincolata al tempo (ossia alla fede nella divinità di Cristo, ai dogmi come forme di conoscenza delle verità sovrannaturali, ai miracoli come irruzioni, suppostamente contrarie al sistema, nella serrata causalità della natura).

Rispetto al Cristianesimo culturale la critica della religione dei secoli XIX e XX fu ancor più schietta e coerente, quando, in particolare, smascherava la religione come pericolosa illusione e la respingeva come ostacolo al paradiso terreno dell’uomo migliorato sul piano socio-politico e riprodotto tecno-psicologicamente. Le energie religiose furono di conseguenza trasformate nella visione transumanista di un Homo-deus, che comprende se stesso come mero ente naturale e trova la propria felicità nel piacere dei sensi (Ludwig Feuerbach) oppure, secondo la teoria postumanista, giunge a slegarsi dalla propria base organica e, in quanto oltrepassamento dello stadio evolutivo biologico, si riproduce digitalmente come intelligenza artificiale[1].

Il presente è connotato dall’ambivalenza di una idolizzazione della natura all’interno del movimento ecologista e di un antiumanesmo nel quale l’uomo denuncia la propria presenza perturbatrice nel mondo illeso di una fauna intatta e di una flora incontaminata, e conseguentemente si abolisce e si decima drasticamente attraverso politiche demografiche (ovviamente le élite finanziarie sono qui il soggetto e le masse povere della popolazione l’oggetto del mainstreaming e del comportamento riproduttivo; ossia aborto come diritto delle donne e eutanasia come suicidio assistito a pagamento).

Al contrario il dogma antropologico dell’uomo come persona, al quale soltanto in relazione al Dio personale balena la verità dell’essere e la cui libertà si compie soltanto nell’amore come agape, è il frangionde della negazione multi-ideologica della tradizione cristiana che si trova di fronte  a questo tsunami del nichilismo metafisico che si abbatte con furia apocalittica. Non c’è vero umanesimo senza Dio. Infatti «senza Dio tutto è permesso» (Fëdor Dostoevskij). Se Dio è morto, possiamo certamente volere che viva il superuomo, ma non possiamo impedire che il bruto entri in scena. Se la “genealogia della morale” (Nietzsche) e la biologia evoluzionistica avessero dato dimostrazione della morale come mera strategia di sopravvivenza, nessuno sarebbe più stato in grado di proteggere l’uomo dall’uomo. L’inviolabilità della dignità umana sarebbe privata di fondamento. Il neoateismo, che costituisce il milieu di autori come Richard Dawkins, Daniel Dennett e Christopher Hitchens, persegue invano un umanesimo senza Dio su presupposti social-darwinistici. Già soltanto la sua polemica contro gli uomini che credono in Dio mette a nudo la disposizione antiumana e intollerante alimentata da odio e disprezzo per l’uomo.

Dalla persona umana alla comunione del Dio trinitario
Quando, ricorrendo alle categorie della metafisica classica dell’essere, esprimiamo l’umanesimo teologico con l’assioma «la grazia presuppone la natura», non intendiamo qualcosa di diverso da quanto afferma l’antropologia cristiana con la tesi di Papa Giovanni Paolo II: la via della Chiesa è l’uomo, giacché soltanto la grazia di Cristo salva l’umanità dell’uomo[2]. Non il superuomo narcisistico, ma l’uomo che va oltre se stesso, è l’ideale della natura umana. Il velocista raggiunge la propria meta non nella sua cabina, ma sulla pista.

Attraverso una perforazione verticale, che mette da parte sovranamente ogni realtà accessoria, perveniamo al soggetto onnireggente e al centro unificante ogni cosa nella semplice sostanza della sua anima spirituale che sussiste nella sua persona. «Persona significat id quod est perfectissimum in tota natura, scilicet subsistens in rationali natura»[3]. La persona non è composta di parti. Essa non può perciò essere fatta risalire a qualcosa di più semplice o essere superata in qualcosa di più originario, proprio perché nel suo essere-con-sé (Bei-sich-Sein) e nella sua autodeterminazione morale è immediatezza rispetto a Dio che si comunica a lei come la Verità Prima.

Anche la mediazione, necessariamente ecclesiastico-sacramentale, della grazia e la conoscenza della Verità Prima, che è disserrata nel Simbolo di fede e nel dogma, non si inseriscono come un terzo elemento tra Dio e l’uomo, bensì – in virtù della partecipazione all’unione ipostatica del mediatore umano con la presenza divina della conoscenza nel Logos – sono nientemeno che la mediazione che introduce all’immediatezza personale: ora nella modalità della fede ed allora nella visione a faccia a faccia. La natura dell’ente non è tuttavia l’abisso, dal quale esso emerge senza sostanza, per poi scomparire nuovamente nel nulla, ma il grembo generante dell’essere che attualizza nel suo esserci un ente concretamente esistente. Così un ente esiste in natura come questa pietra, questo animale, questo uomo di nome Socrate, come questo uomo o questa donna. La natura di un ente individuale manifesta la propria verità a partire dalla propria partecipazione all’essere, in maniera tale che la verità si mostra a noi. Si farebbe violenza alla verità, se essa fosse collocata nominalisticamente nel processo soggettivo di formazione autonoma dei concetti. La verità dell’essere, che si disvela ed esprime nella natura dell’individualmente essente, si sottrae all’arbitrio e alle mire di potenza della ragione finita, giacché soltanto l’intelletto divino è l’unità originante di essere e spirito. Il nostro intelletto è capace di accogliere e di riconoscere la verità, ma non può fondarla e produrla senza peccare contro la luce increata.

Perché, sulla via secondaria della riflessione filosofica e teologica, il Padre celeste ha nascosto la conoscenza del Mysterium Trinitatis ai saggi e agli intelligenti di questo mondo, ossia – formulato in termini un po’ scherzosi – ai militanti autonomi della filosofia, e si è invece rivelato ai cuori semplici e simili a quelli dei bambini nel suo essenziale essere-sé che si completa nella sua relazione con il Figlio nello Spirito Santo? Non vi può essere altra risposta: perché l’essere è semplice e il suo fondamento originario nell’eterno amore si disvela soltanto nella semplicità di un giudizio affermativo. Perciò Gesù afferma nel supremo atto della divina autorivelazione: «Nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Lc 10,22).

Una questione così essenziale, riguardante il rapporto con Dio nella grazia, scaturisce dallo spirito creaturale, già nella modalità della sua fanciullesca inizialità originaria (Ur-Anfänglichkeit), soltanto da un intenso ascoltare (Zu-hören) e prestare attenzione (Mit-denken) che presuppone la sua pregressa apertura all’essere e la riconoscibilità dell’essere nella ragione come anche la sua articolabilità nel linguaggio. Egualmente legittima è la questione della sostanza (Wesen) e della provenienza (Woher) dell’essere, parimenti alla questione dell’essenza (Was) dell’ente ossia di un qualcosa (aliquid) che è definito in un concetto. Ciò dimostra che l’apertura dello spirito all’essere precede il pensiero discorsivo e ogni intelligenza cibernetica, che esiste soltanto funzionalmente, e non sostanzialmente, secondo la modalità dell’intelligenza artificiale. Solo così l’essere può essere pensato e pervenire alla propria espressione e manifestazione nel linguaggio e, di conseguenza, fondare un’unità (Eins-sein) comunicante nel comprendere e nel volere. Così l’uomo e Dio sono radicalmente differenti nella loro natura ed essenza e tuttavia, in base all’analogia dell’essere, può essere riconosciuta e perseguita una realizzazione dell’uomo come creatura di Dio attraverso la sua libera dedizione nella grazia come scopo dell’uomo.

L’attualità dell’essere autorizza soltanto il suo poter-essere-pensato nelle cose concrete e conduce il pensiero sul cammino di un apprendimento che dura tutta la vita. La trasformazione della conoscenza dell’essere in linguaggio presuppone l’origine del mondo nell’essere e nello spirito del suo Creatore e dimostra la sua esistenza come fondamento dell’essere e della conoscenza finiti.

Indipendentemente dalla sua capacità di riflessione e di articolazione condizionata dall’età e dal talento, ogni spirito creato è dunque al contempo comunicazione con se stesso, dal momento che lo spirito nell’atto di pensare compare di fronte al mysterium della propria persona, e anche apertura, oltre se stesso, al fondamento e al fine della propria esistenza, dal momento che l’uomo, servendosi della ragione, riconosce nelle opere della creazione l’invisibile realtà di Dio nella sua eterna potenza e divinità (Rm 1,20). Non meno importante per la costituzione degli atti morali è che nella legge della sua coscienza faccia breccia la santa volontà di Dio come sostanza del bene (Rm 2,14).

Quando chiediamo che cosa sia l’uomo in rapporto all’Autore della sua esistenza, riceviamo questa risposta: egli è una creatura a immagine e somiglianza di Dio. E quando chiediamo per che cosa sia stato creato, oltrepassiamo l’ordine del generale e facciamo ingresso nel regno di ciò che è irriducibile e singolare, nella sfera della persona. Dio si comunica all’uomo personalmente e in assolutamente spontanea libertà. Egli integra il mio essere-chi (Wer-Sein) nella figliolanza divina individuale in maniera tale che io possa dirGli Abba, Padre nello Spirito Santo attraverso il Figlio di Dio (Rm 8,15).

Poiché Dio ha determinato l’uomo secondo un fine che eccede la capacità di comprensione della ragione naturale, e ha preparato al suo cuore una gioia che supera infinitamente la felicità terrena, Egli nella sua autorivelazione storica si è avvicinato all’uomo, come verità e vita, nella Parola fattasi carne e nella profusione dello Spirito Santo[4]. Noi, che siamo diventati noi stessi mediante la Parola, abbiamo accolto, attraverso la fede nel Figlio di Dio divenuto uomo, «il potere di diventare figli di Dioć) (Gv 1,3.12).

Dio non guadagna nulla e nulla perde, quando Egli ci dispone come sue creature nell’esistenza. Pertanto il perfezionamento dell’uomo tramite la grazia non rende l’uomo servilmente dipendente da Dio. Per contro, l’uomo non è emancipato dal rifiuto della grazia e si costituisce suo proprio dio e creatore. Egli acquista invece la propria autonomia come somma dignità nella cooperazione con Dio e viene così perfezionato nella sua libertà nella misura in cui tale cooperazione fonda l’unione della volontà creata con l’increata volontà salvifica di Dio nell’amore. La grazia non colma le nostre lacune, né aggiunge un pezzo mancante a un’opera incompiuta. La grazia presuppone la bontà in sé completa della natura e la conduce al suo fine, così come un centometrista, attraversando il traguardo da vincitore, non si lascia alle spalle la propria natura di essere umano e il proprio status di sportivo, ma lo porta a compimento nel trionfo. «Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia» (Gv 1,16). L’esperienza della grazia deve essere piuttosto paragonata all’esperienza di un’illuminazione nella quale troviamo ciò che sempre abbiamo cercato e che tuttavia va oltre tutte le nostre aspettative. «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano» (1Cor 2,9).

La grazia non è deducibile dalla natura creata e Dio rimane assolutamente libero rispetto all’uomo. Ciò nonostante tra Creatore e creatura non c’è alcuna opposizione dialettica o unità nella contraddizione, ma un’unità analogica, poiché la distinzione delle Persone divine non esprime una lacerazione interna a Dio, bensì la perfetta unità sostanziale (Wesen-Einheit) come amore. In ciò si manifesta anche l’unità del Dio trinitario in cui il Creatore del mondo, il Redentore dal peccato e Colui che porta a compimento nell’amore sono un identico Dio.

L’unità relazionale di natura e grazia
Ogni dualismo manicheo che afferma un’opposizione etica in Dio, come anche ogni monismo idealistico dello spirito, è escluso a limine dal concetto cristiano di Dio. Si deve quindi respingere anche un dualismo antropologico dell’anima e del corpo ed egualmente un monismo che riduce ogni realtà spirituale alla materia o, all’opposto, che fa della natura materiale un fenomeno dello spirito e la priva di ogni realtà ontologica propria. L’uomo è persona in una natura psicofisica, una persona che si muove nel proprio ambiente storico e sociale. In luogo del binomio “spirito contro natura”, in uso a partire da Cartesio, dobbiamo piuttosto dire: la persona esiste nella sua natura-sostanza costituita di spirito e di corpo. In questo contesto l’unità relazionale di grazia e natura, ossia l’unità della persona umana, deve essere compresa, unitamente a Dio, attraverso le sue condizioni di esistenza e di conoscenza.

Così San Tommaso d’Aquino può iniziare la sua riflessione teologica sull’intera fede cristiana con questa constatazione: «L’esistenza di Dio e altre verità che riguardo a Dio si possono conoscere con la ragione naturale, non sono al dire di San Paolo (Rm 1,19), articoli di fede, ma preliminari agli articoli di fede (praeambula fidei): difatti la fede presuppone la cognizione naturale, come la grazia presuppone la natura, come [in generale] la perfezione presuppone il perfettibile (sicut enim fides praesupponit cognitionem naturalem, sicut gratia naturam, et ut perfectio perfectibile[5].

O formulato in altro modo: «Gratuita praesupponunt naturalia, si proprotionabiliter utraque accipiantur»[6]. San Tommaso, con questa famosa proposizione posta all’inizio della Summa Theologiae, concettualizza il principio di realtà e di conoscenza del pensiero cattolico sulla fede. La capacità naturale di conoscere della ragione umana costituisce il presupposto di una conoscenza di Dio che si comunica e si fa conoscere nella sua Parola e nel suo Spirito. E se alla natura spirituale non convenisse la libera volontà, il risultato dell’effusione della grazia divina potrebbe non essere l’unità di Dio e uomo. L’uomo nel suo esserci con i propri talenti etico-spirituali deve se stesso a Dio che è causa prima et universalis. Ma Dio ha creato l’uomo in maniera tale che egli non è un accidente di una sostanza superiore o il modo o una forma di manifestazione di Dio (Spinoza). Né la sua volontà libera è una parola vuota, tale che l’uomo obbedisca ciecamente, come un animale privo di ragione e di volontà, al comando del suo cavaliere divino o diabolico, come si esprime immaginosamente Lutero contro Erasmo nel suo scritto De servo arbitrio (1525).

L’uomo in quanto creatura è stato costituito da Dio in maniera tale che la sua partecipazione all’essere lo mette in comunicazione con se stesso. Egli possiede dignità, realtà e attività proprie che sono rilevanti per la salvezza. Per questa ragione egli può anche divenire collaboratore di Dio nell’unione di un rapporto tra l’Io divino, l’io umano del battezzato e il noi della Chiesa. Nel suo essere-sé (Eigensein) convengono all’uomo anche una realtà e un’attività proprie – «causa sui ipsius in movendo et iudicando est et liberii iudicii de agendo et non agendo»[7].

Tra Dio e l’uomo domina, nei livelli relazionali della creazione, della riconciliazione e del compimento, un rapporto di analogia. Tale rapporto si basa sul bonum naturae. Anche se l’uomo ha perduto, attraverso il peccato di Adamo, lo stato della giustizia e della santità sovrannaturale, egli è rimasto, nel proprio esser-ci (Dasein) e essere-così (Sosein) in quanto uomo, rappresentazione della bontà essenziale di Dio e partecipazione ad essa. Ciò, mentre esclude ogni dualismo metafisico e morale, rende allo stesso tempo impossibile un’auto-redenzione. L’umiltà creaturale e l’apertura al sacrificio eucaristico preservano dalla stoltezza dell’orgoglio. Di conseguenza l’uomo è per sua natura sempre buono, dal momento che è partecipazione della bontà essenziale di Dio, e per il proprio perfezionamento ha bisogno dell’attenzione (Zuwendung) storico-salvifica di Dio nella libera grazia sovrannaturale.

L’uomo non può giustificarsi rispetto al proprio peccato personale affermando che Dio lo ha fatto così fragile e cedevole alla tentazione. Quand’anche il diavolo fosse entrato in un uomo, evento della cui possibilità è difficile dubitare se si pensa agli orrori della storia universale, quel malfattore sarebbe nella propria coscienza completamente obbligato a rendere ragione. Dobbiamo invocare la grazia di non essere sopraffatti nella tentazione. Infatti Dio non permette che qualcuno sia tentato oltre le proprie forze, se solo gli chiediamo ciò con umiltà (1Cor 10,13). Quando tuttavia siamo caduti nel peccato, non possiamo ostinatamente giustificarci adducendo l’insufficiente aiuto di Dio, bensì dobbiamo batterci il petto e implorare soltanto da Lui la grazia della conversione. Non rimane alcuno spazio a dividere il vanto di sé di fronte a Dio dalla disperazione e dall’odio verso Dio, poiché Dio soltanto è misericordioso e giusto.

In conseguenza del dualismo cartesiano di res cogitans e res extensa la determinazione moderna della natura essenziale dell’uomo vacilla tra un ottimismo armonico, che afferma la creazione divina dell’universo come il migliore tra i mondi possibili (Leibniz) [8], e il pessimismo tragico e la ribellione prometeica (Schopenhauer, Nietzsche, Marx). L’uomo però, che non è buono per disposizione naturale ed è corrotto dalla civilizzazione (Rousseau), deve essere uniformato attraverso una severa educazione e un controllo totalitario come avviene nello Stato orwelliano, affinché egli possa funzionare, privato di ogni valore, come un ingranaggio nell’orologio della società. I mali fisici e morali non possono però essere eliminati una volta per tutte mediante manipolazioni neuropsicologiche, perché il prezzo della perdita della dignità umana sarebbe troppo alto. Il male non scaturisce da un difetto della creazione o da una mancanza di ottimizzazione nell’evoluzione, sibbene dalla possibilità che la libertà agisca e pensi contro il senso dell’essere.

I principi formali e materiali della Riforma (solus Christus, sola fide et gratia, sola scriptura) comprendono dialetticamente il rapporto uomo-Dio come un’unità recante in sé la contraddizione (Widerspruchs-Einheit). La teologia cattolica, invece, prende avvio da una mediazione basata sull’analogia, in modo tale che ragione e fede, natura e grazia, recettività umana e dono divino siano piuttosto pensati come una sintesi che ha fondamento portante nella assunzione incarnatoria della natura umana da parte della Parola divina. L’analogia entis è premessa dell’analogia fidei. Di qui il cattolico et-et; ma nell’ordine irreversibile: Cristo e la Chiesa, fede e ragione, grazia e sacramenti, amore di Dio e amore del prossimo (buone opere). Nella sua Enciclica Fides et ratio (1998) Papa Giovanni Paolo II sviluppò ampiamente questo principio fondamentale della fede cattolica, mentre il Cardinale Leo Scheffczyk, affrontando temi essenziali della rivelazione, ha esaminato a fondo questo principio, in particolare nel suo libro Katholische Glaubenswelt. Wahrheit und Gestalt [9].

Michael Johannes Marmann nella sua dissertazione, scritta a Ratisbona sotto la guida di Joseph Ratzinger, allora professore in quell’Università, ha indagato l’origine e la storia del principio o assioma “gratia praesupponit naturam[10]. Per quanto la lettura della genesi di questo assioma possa risultare appassionante, non meno sorprendente è anche il risultato della sua approfondita analisi. Questa formulazione, di cui non si conosce l’autore, non ha sempre avuto il preciso significato che San Tommaso d’Aquino le ha dato.

Si tratta dell’unità di Dio nel suo rivolgersi all’uomo nella creazione e nella redenzione, nella storia della salvezza e nel compimento finale. E si tratta della dignità dell’uomo che non si chiude autarchicamente a Dio o si autocostituisce creatore di se stesso, ma è chiamato alla «libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21). Solamente così la teologia cattolica può giungere, senza indulgere ai contrapposti estremi, a una risposta differenziata alle sollecitazioni della teologia della grazia della Riforma, del naturalismo dell’Illuminismo («etsi Deus non daretur») e della critica della religione (Dio come pericolosa o utile illusione): l’autoredenzione di un umanesimo senza Dio o del sovrannaturalismo positivistico nel quale la Rivelazione costituisce un’aggiunta arbitraria a una “natura pura” che non è capace di realizzarsi (dottrina dei due piani).

Il Concilio Vaticano II, con la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, ha definito la posizione della Chiesa e del Vangelo nel mondo caratterizzato dall’«autonomia delle realtà terrene» (GS 36). La visione teocentrica del credente e la sua piena responsabilità verso il mondo come creazione di Dio non si escludono come opposte alternative, bensì sono riferite l’una all’altra in Cristo, nell’uomo-Dio, in maniera tale che «solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo»[11].

Nella rivelazione Dio, Creatore, Salvatore e Perfezionatore, si è comunicato all’uomo come sua origine e fine. L’uomo non è un’opera incompiuta, ma un’immagine e una rappresentazione della perfezione di Dio (perfectio formae). Ciò nondimeno egli trova il fine, che lo perfeziona (perfectio finis), nella comunione sovrannaturale con il Dio trinitario che abita nell’uomo, vale a dire nella visio beatifica e nella communio sanctorum.

L’essere-sé e l’essere-causa-di-sé dell’uomo come persona, che è orientata alla libertà e all’auto-trascendimento verso il Creatore e il Perfezionatore, non ostacolano la grazia, ma costituiscono la base del suo giungere all’uomo e del suo essere-accolta da lui.

Ma questo è sempre stato il tema della teologia cattolica. La storia della Rivelazione è divenuta in Cristo, il Figlio di Dio, pienezza storica e presente definitivo. La totalità della fede della Chiesa è espressione e comunicazione della sua razionalità e della sua conoscibilità nel Logos, nel verbum incarnatum. Il pensiero della fede, l’intellectus fidei, si fonda nell’ascolto della fede nel quale l’uomo accetta liberamente Dio nella fede e lo riconosce, con l’ausilio della ragione, come autore della natura e perfezionatore dell’uomo nella grazia. Dio rimane per una ragione finita un mistero inesauribile, ma non alieno, giacché Egli è venuto fra la sua gente e comunica ai suoi figli e alle sue figlie la luce della vita e la pienezza della grazia (Gv 1,9.18).

Conseguentemente la storia cattolica della teologia non è una successione di sistemi chiusi di pensatori isolati, ma una coerente comprensione complessiva, in evoluzione e crescita, che si arricchisce e si corregge da sé, dell’unico mistero nella sua totalità e nella compagine delle sue singole membra (nexus mysteriorum), come è descritto dal Concilio Vaticano II nella Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione Dei verbum[12]. Si tratta di un’appropriazione progressiva della Rivelazione nell’articolazione del pensiero della fede. Anche con il sorgere della teologia scientifica nella Scolastica la Patristica non degrada al ruolo di mera preistoria, ma rimane costantemente presente come testimone dell’originaria tradizione apostolica.

Sempre si tratta della bontà della creazione contro gli gnostici e i manichei (Ireneo di Lione), ma, sul versante opposto, anche della necessità della grazia contro i pelagiani e i donatisti (Agostino). A partire da Tertulliano si delinearono i concetti fondamentali della teologia latina. Natura, substantia, essentia, persona non sono importanti soltanto per l’antropologia e la dottrina della grazia, ma si rivelano anche indispensabili per salvaguardare i misteri della Trinità e dell’Incarnazione dallo svuotamento razionalizzante e dall’allontanamento fideistico da ogni comprensione umana. Assicurata la bontà della creazione, il Cristianesimo non riguarda una filosofia e una visione del mondo alternativa, bensì la redenzione del peccatore dalla perdita di Dio, dalla miseria del peccato e dalla potenza annientatrice della morte. Il dramma storico-salvifico della redenzione e della giustificazione del peccatore attraverso la croce di Cristo, che contraddice ogni sapienza del mondo e ogni atteggiamento autocratico, dimostra che la fede non è soltanto un quieto possesso della conoscenza, una sorta di contemplazione platonica delle idee e di mistica plotiniana. La giustificazione del peccatore attraverso la nascita dell’uomo nuovo nella grazia santificante rappresenta una lotta esistenziale tra l’inimicizia dell’uomo verso Dio, la quale conduce alla morte, e il risorgere dell’uomo nuovo in Cristo.

Così anche Agostino non può in alcun caso essere superato attraverso Tommaso o, a sua volta, Tommaso eluso ricorrendo ad Agostino. Piuttosto ogni cristiano, come ogni teologo, dovrebbe andare tanto alla scuola dei teologi “esistenziali” quanto a quella dei teologi “speculativi” e da tutti apprendere qualcosa sull’inesauribilità dei misteri di Dio in verità e amore. Le grandi intuizioni della fede, che i Padri della Chiesa ci hanno donato, conservano la loro validità. Ciò nonostante il salto qualitativo in Tommaso consiste nel fatto che egli supera i limiti del rivestimento platonico e neoplatonico del loro pensiero con l’ausilio del realismo ontologico e cognitivo aristotelico. Il credente, prendendo sul serio e senza riserve la realtà creata nel suo esser-ci ed essere-così (natura), non viene distratto da Dio e dalla Redenzione, ma condotto direttamente a una più piena conoscenza e amore di Dio.

Solamente così può essere vinto il latente dualismo che è presente in tutte le eresie. Come la conoscenza del mondo a partire dalle sue cause prime non può contraddire la conoscenza di Dio nella fede che, per amore della salvezza, contempla sub ratione Dei ogni cosa che è, così la materia e, in particolare, la corporeità dell’uomo non è causa e motivo del peccato. Né, attraverso la rappresentazione di un’assoluta corruzione dell’uomo, si possono esagerare le conseguenze del peccato fino ad arrivare a concepirne l’origine in Dio. In qualche modo Dio diverrebbe autore del peccato, permettendolo o, nonostante la sua bontà, non opponendosi ad esso. Anche nella costruzione neoplatonica a gradi (Stufenbau) dell’essere creato si giunge facilmente a una confusione della finitezza creata con l’incompiutezza morale e persino con il peccato. La redenzione non consiste tuttavia nel ritocco di un atto di creazione imperfetto, ma nella liberazione della volontà dalla sua chiusura, affinché possa raggiungere il suo scopo nell’amore di Dio sopra ogni cosa e del prossimo come se stessi.

Dio è in sé buono e tutto ciò che Egli ha creato è espressione e partecipazione della sua bontà. Alla nostra finitezza non è inerente alcunché di peccaminoso e di contrario a Dio; il peccato proviene piuttosto dalla decisione della volontà libera contro Dio e contro il bene. E la ragione per cui anche il moderno naturalismo senza Dio è condannato al fallimento, sta nel fatto che nelle sue acque basse non riesce a far prendere il largo alla nave.

La grazia presuppone la natura come la navigazione sufficiente acqua sotto la chiglia. Per quanto concerne la redenzione, la grazia non distrugge la natura ma la guarisce e la eleva alla figliolanza divina dell’uomo nuovo «che è creato a immagine di Dio nella giustizia e nella santità» (Ef 4,24).

Tommaso con l’assioma della grazia presupponente la natura conserva l’assoluto teocentrismo della Rivelazione e della storia della Chiesa. Dio è origine e fine dell’uomo e di tutta la creazione. Ma l’uomo non è soltanto destinatario della parola e soggetto che accoglie la grazia, ma anche colui che si fa autonomamente carico della responsabilità per se stesso, per l’umanità e per il mondo nella natura, nella cultura e nella storia. L’orientamento a Dio e la responsabilità verso il mondo sono come due facce della stessa medaglia. E tuttavia la teologia, che non si impossessa razionalmente del mistero, si costruisce sempre nuove immagini di Dio e dell’uomo. Pertanto si sottraggono a una definizione ultima “sovratemporale” anche concetti fondamentali come quello di “natura” per indicare l’essere-creato dell’uomo e della “grazia” in quanto dono attraverso il quale l’uomo viene messo completamente in relazione a Dio. Proprio per questo, anche dopo Tommaso, che ha definito il principio della grazia che presuppone la natura, sono possibili e necessari nuovi percorsi della teologia. Non intendo però soltanto la teologia dei pochi esperti, ma la comprensione dei misteri del Regno dei Cieli nello spirito dell’amore che è simile a quello dei bambini.      

 

 

 

 

 

[1] Vedi Yuval Noah Harari, Homo deus: eine Geschichte von Morgen, München 2018².

[2] Giovanni Paolo II., Enciclica Redemptor hominis 14.

[3] Tommaso d’Aquin, Summa theologiae I q. 29 a. 3.

[4] Tomamso d’Aquino, Summa theologiae I q. 1 a. 1.

[5] S.th. I q. 2, a. 2 ad 1; S.th. I q. 1. a. 8.

[6] De veritate q. 27 a. 6 ad 3.

[7] De veritate q. 24 a. 1.

[8] Gottfried Wilhelm Leibniz, Die Vernunftprinzipien der Natur und der Gnade 10 (1714); Idem,  Hauptschriften zur Grundlegung der Philosophie II, cur. E. Cassirer, Hamburg 1966³, 423-434, ivi 429.

[9] L. Scheffczyk, Il mondo della fede cattolica. Verità e forma, Milano 2007, 41-67. Sull’assioma gratia supponit naturam vedi anche ibidem, 278-289; Idem, La realizzazione della salvelzza nella grazia. Dottrina sulla grazia (Dogmatica cattolica, 6), Città del Vaticano 2020, 320-333.

[10] M. J. Marmann, Praeambula ad gratiam. Ideengeschichtliche Untersuchung über die Entstehung des Axioms gratia praesupponit naturam, cur. Simone Bellici, (Fromm-Verlag) Saarbrücken 2018.

[11] Gaudium et spes 22.

[12]  Dei verbum 8.