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EUTANASIA

Charlie, i medici sono benefattori? La trappola corre sui media cattolici

Su alcuni media cattolica avanza l'idea di medici cattolici che i medici dell'ospedale inglese decisi a porre fine alla vita di Charlie siano dei benefattori interessati ad evitare l'accanimento terapeutico del povero bambino. Se la qualità della vita è il criterio, perché non concederla a chi sente di avere esaurito il proprio percorso esistenziale? Ma Dio non è un "tipino" formalista che si fa prendere per il naso da chi pensa di fare il furbacchione nascondendosi dietro ai sofismi.

Vita e bioetica 02_07_2017

Adesso gira e gira su mezzi d'informazione cattolica, ed è avanzata da medici cattolici, l'idea che i medici dell'ospedale inglese decisi a porre fine alla vita di Charlie siano dei benefattori interessati ad evitare l'accanimento terapeutico del povero bambino. Analizziamo con calma i fatti. Che cosa vogliono i medici di Charlie? Non ho motivi per dubitare che desiderino porre fine alla sofferenza del bambino.

Come intendono farlo è evidente, interrompendo un sostegno vitale come la ventilazione. Ora che abbiamo raccontato il fatto andiamo a leggere la definizione di eutanasia presentata dal magistero della Chiesa: "Per eutanasia s’intende un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati" (S. Congr. Dottrina Fede, Dichiarazione sull'eutanasia, 5 maggio 1980).

Descrizione fisica dell'azione: interruzione della ventilazione di Charlie. Oggetto morale dell'azione: procurare la morte di Charlie. Intenzione: eliminare la sofferenza di Charlie. Dunque quello che alcuni commentatori cattolici lodano è nient'altro che l'eutanasia. Ovviamente è nella libertà essere favorevoli all'eutanasia, ritengo però intellettualmente disonesto presentare come cattolica tale posizione. Se è la morte di Charlie quello che si vuole ottenere e la si ottiene mediante un atto, la rimozione del tubo endotracheale, vi sarebbe differenza etica se la morte fosse procurata con l'iniezione letale?

Quanta differenza morale vi è tra omettere di soccorrere il profugo in mare e affondargli la barca con una cannonata? Certo, nel primo caso si dirà che l'uomo è stato ucciso dal mare, nel secondo dal cannone. Ma questo modo di ragionare ho l'impressione che non si discosti molto dall'espediente di Davide per fare fuori il marito di Betsabea. Ma Dio non è un "tipino" formalista che si fa prendere per il naso da chi pensa di fare il furbacchione nascondendosi dietro ai sofismi.

Davanti al proprio peccato messogli davanti dal profeta Natan, Davide ammette la propria colpa in quello che diventerà il salmo 50.

Ma procediamo facendo un altro piccolo passo. Si sostiene che la ventilazione di Charlie costituisce un accanimento terapeutico, se così fosse, allora essi avrebbero ragione e l'interruzione dei trattamenti sarebbe addirittura doveroso. Primum non nocere è un caposaldo dell'etica medica. È la ventilazione in un caso come questo un atto sproporzionato? Ritengo di no. La ventilazione raggiunge l'obiettivo che si prefigge, assicurare l'ossigenazione del sangue e dunque dei tessuti di Charlie.

Che le cose stiano così lo attesta il fatto che interrompendola i medici si attendono che insorgano i sintomi dell'asfissia e per evitare che il bambino li percepisca hanno pianificato di sedarlo preventivamente. Non è futile, giacché è ordinata a consentire una terapia sperimentale che seppure con scarsissime probabilità di successo rappresenta comunque una possibilità, quantunque flebilissima. Ed è proporzionata, giacché tentare una cura disperata in un caso disperato non è mai un atto sproporzionato, come attestato dal fatto che di fronte ai casi senza speranza le clausole di salvaguardia per la sperimentazione umana si abbassano enormemente.

E non è neppure intollerabilmente gravosa, grazie alla possibilità di sedazione. Dunque la ventilazione non ha per il piccolo paziente inglese nessuna caratteristica di ciò che possiamo indicare come accanimento terapeutico.

Analizziamo infine un ultimo aspetto. Alcuni affermano che la qualità della vita di Charlie è a tal punto compromessa da fare preferire la morte. A livello teorico la qualità della vita per potersi esprimere non può prescindere dalla presenza della vita e dunque una qualità di vita bassa è sempre superiore ad una qualità di vita assente per assenza del suo presupposto, la vita. Peraltro la qualità della vita non è altro che misurazione di benessere e di capacità di attuare determinate funzioni; pensare che un punteggio di qualità della vita al di sotto di una certa soglia sia ragione sufficiente per porre fine alla vita di una persona non può che sollevare una serie di domande a cui i sostenitori cattolici dei medici inglesi hanno il dovere di dare risposta: su quali parametri quantificare la qualità di vita? Chi pone la soglia di qualità della vita sotto la quale è meglio la morte? Quanto livello di errore siamo disposti ad accettare? Quanto lungo deve essere il periodo di valutazione? Si effettueranno stime per chi non è capace di esprimere un'autovalutazione?

Intervento all'XI assemblea generale della Pontificia Accademia per la vita il medico, bioeticista, nonché frate francescano padre Maurizio Faggioni disse: "Affermare la sacralità di ogni vita umana e dedurne l’eguaglianza di dignità e l’intangibilità non nasconde che le diverse esistenze manifestano qualità diverse, alcune desiderabili ed indesiderabili, non nasconde che per alcuni e, forse, molti la vita non sia felice, compiuta e realizzata, ma non per questo ritiene diminuita la dignità e il valore di quelle esistenze fragili e dolenti.

L’agente morale è, dunque, chiamato non ad attribuire valore, ma a riconoscere il valore intrinseco di ogni vita umana in quanto umana". Il problema non è negare la qualità della vita, non si può negare il reale, ma affermare che una qualità di vita ritenuta scadente trasformi i sostegni vitali in un accanimento terapeutico. Come osservava il bioeticista Paul Ramsey "Un approccio fondato sulla qualità della vita sposta erroneamente il centro dal se i trattamenti sono di beneficio al paziente al se la vita del paziente sia di beneficio ad essi".

Il medico di origine ebrea Leo Alexander aveva conosciuto da vicino questo giro mentale come capo del collegio di accusa nel processo ai medici nazisti di Norimberga, 9 dei quali furono condannati alla pena di morte. Nel 1949 sul prestigioso New England Journal of Medicine con queste parole ammoniva i colleghi: "Gli inizi sono stati dapprima solo un sottile cambiamento nell’atteggiamento di base dei medici. È cominciato con l’accettazione, alla base del movimento eugenetico, che esiste una cosa come una vita non meritevole di essere vissuta. Questo atteggiamento riguardava all’inizio solo i malati gravi e cronici. Gradualmente la sfera di coloro da includere in questa categoria è stata allargata per comprendere i socialmente improduttivi, i non desiderati ideologicamente e alla fine tutti i non tedeschi. È però importante rendersi conto che il cuneo infinitamente piccolo che ha funzionato da leva perché questa intera linea di pensiero ricevesse impeto è stata l’atteggiamento nei confronti del malato non recuperabile. La categoria vite immeritevoli di essere vissute è sufficientemente vaga da consentire una graduale estensione a nuovi e meno chiari casi, una volta che il principio di base sia stato assicurato".

In Olanda è andata proprio così: dall'eutanasia volontaria su paziente in fase terminale all'eutanasia volontaria su paziente cronico, poi estesa all'eutanasia involontaria, all'eutanasia per i pazienti psichiatrici, fino all'eutanasia neonatale su decisione dei medici. Se la qualità della vita è il criterio, perché non concederla a chi sente di avere esaurito il proprio percorso esistenziale?