C'era una volta la kermesse dei "rottamatori"
La Leopolda, ormai giunta alla sua settima edizione, era l'appuntamento dei Renziani per proclamare la rottamazione della vecchia politica e gettare le fondamenta di un nuovo modo di farla. Ora si è trasformato in un gigantesco spot per il SI al referendum, su cui Renzi ripone le ultime speranze per rimanere in sella.
C’era una volta la Leopolda, kermesse di rottamatori che, parafrasando una celebre canzone di Gino Paoli, volevano cambiare il mondo. Sono passati sette anni dalla prima edizione, dominata dai proclami bellicosi di un gruppo di trentenni che lanciavano la sfida alla gerontocrazia e sognavano di governare il Paese.
Moltissimi italiani avevano creduto in loro e guardavano con slancio ottimistico a una nuova generazione di sognatori che con tenacia, perseveranza e progettualità lanciavano un’opa sul governo e immaginavano di cambiare il Paese rimuovendo ataviche incrostazioni di potere e debellando perniciose pastoie burocratiche. Il sogno si è realizzato poco meno di tre anni fa, quando Matteo Renzi è sbarcato a Palazzo Chigi e ha formato un governo con tante facce nuove e qualche eredità dei precedenti esecutivi.
L’apice di quella parabola sono le elezioni europee di due anni fa, con il 40,8% conquistato dal Pd. Oggi, forse, siamo vicini al punto più basso di quella parabola, con un premier che si gioca tutto nel referendum costituzionale.
Dopo sette anni la Leopolda sembra infatti essersi trasformata da incubatore di progetti innovativi per il futuro del Paese a palcoscenico della conservazione e della difesa disperata di posizioni di potere. E’ lo stesso percorso compiuto da Enrico Letta, che oltre dieci anni fa inaugurò un percorso di innovazione dei metodi e dei contenuti della politica, attraverso il laboratorio “Vedrò”, abortito proprio quando lui approdò alla Presidenza del Consiglio. Che cosa rimane di quel think thank di Letta? Poco o nulla. Fu un suo modo per alimentare una sorta di sua corrente all’interno del centrosinistra. La Leopolda di Renzi sembra ormai la stessa cosa. Un partito nel partito, una sorta di corrente politico-culturale pronta a calare i suoi assi e a condizionare i rapporti di forza dentro e fuori il Pd.
Non è un caso che l’annuale appuntamento renziano sia stato anticipato a novembre (di solito si tiene a metà dicembre): troppo ghiotta l’occasione per lanciare l’ennesimo spot in favore del “si” al referendum e per tentare un’estrema e disperata manovra di riavvicinamento alla base del Pd, sempre più disorientata dagli atteggiamenti ondivaghi del premier sulla legge elettorale e su altri temi sensibili.
Ieri l’ex sindaco di Firenze ha nuovamente tuonato contro la minoranza dem, accusandola di fare campagna per il “no” con il solo obiettivo di disarcionarlo da Palazzo Chigi e di ritornare al potere. Ma l’argomento del “nuovo” contro il “vecchio”, cioè dei “si” per cambiare contro i “no” per restaurare”, appare ormai un’arma spuntata per il Presidente del Consiglio, considerati gli appoggi di Napolitano, Verdini, Alfano e altri “cavalli di razza” che affollano il fronte del “si”. La cosa che ha sorpreso di più di Renzi ieri alla Leopolda è stata proprio la mancanza di argomenti nuovi per tentare di far breccia nel fronte degli indecisi. Ha più che altro ripetuto gli slogan di sempre, rivendicando i meriti del suo governo, alimentando la psicosi disfattista rispetto all’ipotesi della vittoria dei “no” e ha attaccato ancora una volta Berlusconi, D’Alema e tutti coloro i quali lo criticano.
Da uno statista che sostiene di voler assicurare un futuro al Paese attraverso una riforma costituzionale “epocale” ci sarebbe francamente da aspettarsi di più, ed è per questo che il fronte del “no” esce tutto sommato ringalluzzito dal discorso di chiusura di Renzi alla Leopolda, perché ne ha ricavato la definitiva percezione di un premier alle corde e assai timoroso per l’esito del voto del 4 dicembre. Soprattutto sono apparse fuori luogo le parole di Renzi a proposito della minoranza dem, da lui accusata di "voler distruggere il Pd esattamente come aveva distrutto l’Ulivo". La verità è che gli esponenti dell’opposizione antirenziana non si sentono più a casa loro perché lamentano la mancanza di democrazia interna e di condivisione delle scelte di partito. E vedono come l’ennesima “polpetta avvelenata” del premier la proposta di accordo sulle modifiche all’Italicum, altra prova di debolezza di Renzi che, dopo aver posto la fiducia sulla legge elettorale, ora è pronto a rinnegarla in tutti i suoi capisaldi (ballottaggio, premio di maggioranza alla lista anziché alla coalizione) piuttosto che difenderla con coerenza, non avendola ancora mai applicata ad alcun test elettorale.
Non è un caso che sui giornali da settimane circolino già ipotesi sui vari scenari post-referendari. In caso di vittoria del “si”, c’è da giurare che da Palazzo Chigi inizierebbero le pressioni sul Quirinale per uno scioglimento anticipato delle Camere, al fine di consentire a Renzi di epurare definitivamente la minoranza dem e blindarsi per altri cinque anni alla guida del governo. In caso di vittoria del “no”, al momento la possibilità più concreta stando ai sondaggi, potrebbe esserci un nuovo esecutivo a guida Renzi, ma limitato nel tempo, in funzione del cambio di legge elettorale, oppure un governo tecnico guidato dal ministro Padoan o uno di transizione guidato dall’attuale ministro, Dario Franceschini. Tutte ipotesi che segnerebbero il declino inesorabile del renzismo, peraltro già in atto. Il diretto interessato lo sa ed è per questo che con la forza della disperazione ieri ha incitato il popolo della Leopolda a intensificare la campagna per il “si”. Ma basterà per evitare la debacle?