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"Ce la regoliamo tra noi": la sharia in Germania

L'inchiesta del giornalista Wagner rivela che le comunità turche, curde e libanesi in Germania non rispondono più alla giustizia tedesca, ma a quella coranica. Le dispute vengono risolte da corti clandestine che sentenziano in base alla sharia.

Esteri 16_11_2013
"La shariah dominerà il mondo"

Il motto sempre più frequentemente in circolazione all’interno, in particolare, di alcuni clan di immigrati residenti in Germania (libanesi, palestinesi e curdi) è: “Ce la regoliamo tra di noi”. Il tema su cui è tornato domenica scorsa su Welt am Sonntag Joachim Wagner, già autore due anni del libro Giudici senza legge. La giustizia parallela islamica minaccia il nostro stato di diritto, è quello della progressiva estensione della sharia, intesa come strumento per regolare e condizionare la convivenza sociale.

Difficile raccogliere e comunicare dati certi, visto che si tratta di una giustizia “parallela”, praticata all’interno delle singole comunità d’immigrati, ma dalle testimonianze raccolte da Wagner il diffondersi di una giustizia ombra di stampo islamico al cui centro vi sono i cosiddetti giudici di pace, “conciliatori” solo per grazia propria, senza formazione e senza legale legittimazione, va sempre più diffondendosi: “Non accettano lo stato di diritto tedesco”, dice Uwe Kolmey, presidente del Dipartimento di Polizia Criminale della Bassa Sassonia, «e ciò che fino a qualche tempo fa accadeva solo nelle grandi città si sta trasformando in un problema diffuso nell’intera nazione».  Numeri certi non ne esistono anche perché i protagonisti nel corso delle trattative e gli incontri risolutori evitano di esprimere minacce dirette, dunque alla polizia è riservato il solo ruolo di osservatrice. Un senso d’impotenza che si coglie bene nelle parole di Erol Özkaraca, politico socialdemocratico a Berlino-Neuköln (uno dei quartieri a maggiore densità d’immigrati dell’intera Germania): «È impossibile da sopportare il fatto che, com’è evidente agli occhi di tutti, la criminalità organizzata eserciti il proprio diritto sotto forma di sharia».

È utile ricordare qui che i cosiddetti “conciliatori” fondano la propria autorità sull’antico diritto della stirpe, sul potere dei clan familiari e sull’uso della sharia, delle norme e delle regole del diritto islamico. In esso sono centrali due pensieri: ritorsione e accomodamento, vendetta e risarcimento. Soprattutto con gli omicidi e con i ferimenti le “qisas” (sura 2, verso 178), le punizioni, offrono la possibilità di barattare il “denaro sporco di sangue” con la faida. È qui che intervengono i “conciliatori”, che sono soliti condurre le loro trattative in sale da tè, in appartamenti privati o dentro le moschee.

Talvolta si tratta di imam, spesso però anche di “uomini d’affari” con impressionanti registri contenenti le condanne precedenti, uomini essi stessi immischiati con la criminalità organizzata dei clan kurdo-libanesi o turchi. Il loro obiettivo è molto semplice: risolvere controversie di ogni tipo (dai drammi familiari e matrimoniali fino all’”omicidio d’onore”) prima che la giustizia tedesca emetta la propria sentenza.

Più che un grido d’allarme, quello di Joachim Wagner è il resoconto lucido, attraverso singole storie,  di una realtà che in breve tempo potrebbe assumere dimensioni difficilmente controllabili. Una delle storie raccontate da Wagner è quella di Taccidin Yaktin, già presidente del consiglio centrale dei turchi in Germania, il cui figlio Ali nel 2009, a Berlino, con la sua Alfa Romeo aveva investito e ucciso il giovane Mohammed, appartenente alla famiglia Omeirat, libanese, mentre quello stava attraversando la strada con il rosso (motivo per cui la giustizia tedesca non ha ritenuto colpevole Ali). Insoddisfatta da quella sentenza, la famiglia Omeirat ha affidato all’imam della moschea Omar di Neuköln l’organizzazione di un incontro tra la famiglia libanese e Yaktin. Quest’ultimo non ha avuto dubbi a presentarsi all’appuntamento (la sede di un’associazione libanese di berlino-Neuköln) convinto di essere stato invitato, come da tradizione araba, ad una stretta di mano e a bere del tè. Nulla di tutto questo. Piuttosto si è trovato di fronte una quarantina di persone, tra membri della famiglia Omeirat e di altri clan arabi, alcuni dei quali noti alla polizia perché appartenenti alla criminalità organizzata. E in quel contesto è stato il citato imam, dopo aver letto brani dal Corano, a sentenziare che il caso andava risolto “secondo la sharia”, Alì cioè è da considerarsi in tutto e per tutto responsabile della morte di Mohammed, senza attenuanti. “Noi non vogliamo minacciarti”, questa la minaccia, “ma quando andrai in giro per strada noi non potremo garantire per la tua vita”.   Pena richiesta: 100 cammelli, corrispondenti a circa 55.000 euro. A nulla sono valse le proteste di Yaktin (“Non accetto la sharia. Noi viviamo in Germania e il tribunale tedesco ha assolto mio figlio”), riuscendo solo a far scendere la richiesta a 20.000 euro. Informata dallo stesso Yaktin, la polizia berlinese era nei pressi dell’incontro, ma non poteva intervenire: «La parte richiedente è molto abile. Non si lascia mai andare a minacce dirette», ha dichiarato a Carsten Wendt, il responsabile dell’Osservatorio sulla Criminalità Organizzata della polizia berlinese, a Wagner.

È vero d’altra parte che durante la fase istruttoria Taccidin Yatkin, insieme alla famiglia, non si è certo astenuto da azioni di disturbo. Per esempio, delle 50 persone chiamate a testimoniare sull’incidente, la maggioranza ha dichiarato di non ricordare o di ricordare vagamente quanto accaduto.  Al momento Yaktin non ha ancora pagato i 20.000 euro richiesti dalla famiglia Omeirat, ma lui e la sua famiglia vivono sotto la protezione della polizia.

In conclusione, al cospetto di una giustizia tedesca che è sempre più chiamata a difendersi dalle azioni di disturbo dei clan (in particolare arabi, curdi e turchi), resta l’amara considerazione del presidente del Tribunale di Hildesheim (sede del processo per la morte di Mohammed Omeirat): “In queste situazioni lo Stato di diritto si scontra con limiti determinati da famiglie che non accettano le nostre regole e strumentalizzano le nostre strutture”. Una frase da cogliere in tutta la sua gravità, perché espressa non certo dal leader di un partito politico razzista, ma dal rappresentante di un’istituzione fondante lo Stato tedesco.