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TORINO

Caso Seymandi, un grave errore archiviare le offese online

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È molto pericolosa l'archiviazione disposta dalla procura di Torino per i pesanti insulti sui social contro l'imprenditrice accusata pubblicamente di tradimento e mollata dal promesso marito. Non si può considerare la Rete una zona franca dove tutto è possibile.

Attualità 09_12_2024

Ricevere offese in Rete è certamente più dannoso che riceverle nella vita reale. Nell’oceano virtuale prevale la viralità dei contenuti, che dunque sono difficili da stoppare, contraddire, arginare, mentre nella vita reale le dicerie, i pettegolezzi, il passaparola operano soltanto in una cerchia ristretta di persone e, tutto sommato, possono fare meno danni. Di qui la necessità di predisporre un efficace e adeguato sistema di garanzie per tutelare la reputazione online ed evitare che gli insulti e le offese gratuite possano continuare a circolare senza che qualche autorità intervenga per punire i responsabili.

Questo punto di vista, evidentemente, non è condiviso dalla procura di Torino, che ha dichiarato non perseguibili le parole infamanti rivolte da tantissimi haters nei confronti di Cristina Seymandi (nella foto dal suo profilo Facebook), l’imprenditrice collaboratrice dell’ex sindaco di Torino Chiara Appendino, e protagonista di una burrascosa separazione da Massimo Segre, nell’estate 2023. Davanti ad una platea di 150 invitati, la donna era stata accusata dall’ex compagno di presunti tradimenti e relazioni segrete coltivate in parallelo alla loro storia. Il tutto in un party che sembrava preparatorio alle nozze e che era stato immortalato in un video che ha fatto, appunto, il giro della Rete. Seymandi, in seguito a quella vicenda e ad un post pubblicato lo scorso 13 maggio scorso, era stata fatta oggetto di diversi commenti che facevano proprio riferimento a quel “famoso” video e aveva sporto denuncia.

Secondo il pm torinese Roberto Furlan non ci sono gli estremi per procedere perché i toni aggressivi sui social sono ormai una pratica consueta e dunque occorre archiviare quelle violenze verbali, senza procedere nei riguardi di chi le ha prodotte e veicolate. Secondo il pm, «la progressiva diffusione di circostanze attinenti la vita privata e la diffusione dei social ha reso comune l'abitudine ai commenti, anche con toni robusti, sarcastici, polemici e inurbani», motivo per il quale è necessario «tenere conto della mutata condizione della società, la quale, con l’uso dei social, è divenuta maggiormente sensibile agli avvenimenti privati delle persone».

Si tratta di conclusioni pericolose per il messaggio, altamente diseducativo, che trasmettono all’opinione pubblica e al popolo della Rete, ma anche contrarie all’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, nazionale e internazionale, che tende sempre di più a ritenere il mezzo telematico un’aggravante del reato di diffamazione, cioè della lesione dell’onore e della reputazione altrui.

C’è un’evidente sottovalutazione da parte del pm torinese dei danni che possono provocare le denigrazioni diffuse nel web e sui social. La sua richiesta di archiviazione si basa su un maldestro tentativo di normalizzazione della violenza in Rete, visto e considerato che il contesto dei social media avrebbe reso «comune l’attitudine ai commenti con toni robusti e inurbani». Secondo la procura, ciò che non è tollerato nel mondo reale diventa «quasi normale» sui social network. A questo si aggiunge la difficoltà pratica di identificare gli autori degli insulti, spesso nascosti dietro profili falsi. Sarà ora il Gip a dover valutare la richiesta di archiviazione.

Nel frattempo il dibattito pubblico impazza e tende a polarizzarsi: c’è chi ritiene pericolosa la richiesta di archiviazione del pm torinese, che punta a trasformare il territorio virtuale in una zona franca nella quale è tutto lecito e non ci sono possibilità di far valere i propri diritti della personalità; ma c’è anche chi valuta opportuno prevedere un regime speciale e più permissivo per i canali digitali e social, al fine di non comprimere la naturale e quotidiana dialettica tra persone che si confrontano ed esprimono opinioni su fatti di interesse pubblico.
In altre parole, sui social dovrebbe applicarsi una maggiore tolleranza rispetto alla manifestazione del pensiero e all’esercizio del diritto di critica, trattandosi di mezzi più facilmente accessibili e non sottoposti a vincoli di controllo da parte dei superiori gerarchici: cosa che richiama la distanza tra il regime editoriale previsto per i direttori responsabili delle testate giornalistiche, obbligati a vigilare sui contenuti pubblicati ogni giorno, e quello dei titolari di un profilo social, che invece ospitano spesso messaggi a dir poco coloriti e non ne rispondono se non a fronte di denuncia da parte dei bersagli di quelle critiche.

Il caso Seymandi, da questo punto di vista, può riportare le lancette dell’orologio a vent’anni fa, quando la riparazione degli errori nel web e sui social sembrava affidata esclusivamente alla buona volontà e all’indulgenza dei produttori di contenuti. Oggi per fortuna ci sono più tutele, anche se richieste di archiviazione come quella del pm torinese rischiano di riportare il caos e l’anarchia nell’oceano virtuale e ad avvelenare il clima sociale e culturale nel nostro Paese.



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