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EDITORIALE

Caso Santoro-Bonev, intervenga l'Ordine dei giornalisti

Con l'ennesima trasmissione sulle "notti di Arcore" si è toccato uno dei punti più bassi dell'imbarbarimento dei talk show. Calpestata ogni regola deontologica in nome dell'audience e della politica. E' necessario rivedere il sistema dei media.

Editoriali 20_10_2013
Michelle Bonev

Negli ultimi giorni il termometro dello scontro tra politica e informazione è tornato a salire. Prima le polemiche innescate dal pidiellino Renato Brunetta sui compensi in Rai, qualche sera fa la puntata di “Servizio pubblico” (La 7), durante la quale è andata in onda un’intervista all’attrice, produttrice e regista bulgara, Michelle Bonev.

Quest’ultima vicenda segna uno dei punti più bassi dell’imbarbarimento dei talk show e chiama in causa ancora una volta le categorie del corretto esercizio del diritto di cronaca e di critica, calpestate senza ritegno e senza che l’Ordine dei giornalisti, almeno fino ad oggi, sia intervenuto.

La puntata della trasmissione è incentrata sulle notti di Arcore, quasi che in Italia non ci sia nulla di più importante di cui occuparsi. La conduzione della trasmissione è, come al solito, faziosa e volgare. Sembra di rivivere l’intervista alla D’Addario, di qualche anno fa. La credibilità della Bonev, in cerca di contratti e di visibilità, è pari a quella della D’Addario (e, ci sarebbe da aggiungere, superiore a quella dell’ex parlamentare De Gregorio), ma alla “premiata ditta” Santoro-Travaglio questo non importa.

Conta l’audience e conta soprattutto mantenere a mille i giri della macchina del fango, sempre in azione. Una delle frasi chiave pronunciate dalla Bonev, nel racconto delle “cene eleganti” a casa dell’ex Presidente del Consiglio, è: «Lì funziona così: alla fine della festa ogni ragazza ha una richiesta da fare a lui, perché è arrivata per qualcosa, per un ruolo in un film, per una borsa di pitone, per una… per pagare l’affitto, la luce, il gas. Quindi lui rimaneva in sala, tutti uscivamo fuori, ci sedevamo sui divani e poi lui una per una, come il padrino, cominciava ad ascoltare le loro richieste».

Successivamente la bulgara parla anche della Pascale, attuale fidanzata del Cavaliere, addentrandosi anche nelle sue presunte preferenze sessuali e svelando particolari della vita privata che non solo non rivestono alcun interesse pubblico ma violano il codice deontologico dei giornalisti in materia di privacy e tutela dei dati sensibili nell’esercizio del diritto di cronaca.

L’Ordine nazionale dei giornalisti ha subito preso posizione dopo l’accaduto, censurando il giornalismo “guardonista” a senso unico di Santoro, che evidentemente è affetto da strabismo rispetto alla difesa della privacy delle donne: per lui ci sono donne di serie A e donne di serie B rispetto al diritto alla protezione della sfera privata. Ora l’Ordine regionale dei giornalisti competente dovrebbe intervenire aprendo un procedimento disciplinare nei confronti della giornalista che ha intervistato la Bonev e di Santoro che ha mandato in onda quel colloquio. Si tratta dell’ennesima ingerenza nella vita privata dell’ex premier, non essendo quei particolari in linea con il rispetto dei tre parametri dettati dal “decalogo del giornalista” (sentenza della Cassazione del 1984): verità della notizia, pertinenza o interesse pubblico, continenza della forma espositiva. La Pascale ha annunciato che chiederà 10 milioni di danni e quindi la vicenda avrà certamente strascichi giudiziari.

Rimane sullo sfondo il tema della correttezza dei conduttori di talk show, giornalisti a tutti gli effetti, che pretenderebbero di svincolarsi dalle norme deontologiche che si sono impegnati a rispettare per esercitare la professione. Da una parte ci vorrebbe più incisività da parte dell’Ordine professionale nel chiedere l’adempimento di quei doveri. Dall’altro lato, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni dovrebbe intervenire in maniera efficace sulle televisioni, facendo rispettare le delibere sull’imparzialità (collegate anche alla legge sulla par condicio) da lei stessa emanate.

Non possono bastare i richiami di Renato Brunetta al rispetto del pluralismo, anche perché per l’esponente del Pdl il pluralismo è più che altro un riequilibrio di spazi in favore del suo partito. Esattamente il contrario di quanto sostenuto costantemente negli ultimi quarant’anni dalla Corte Costituzionale, che definisce il pluralismo come la massima apertura possibile alla totalità delle opinioni e dei punti di vista, non solo a quelli dei partiti maggiori.

In un’epoca di crisi fanno sobbalzare dalla sedia i compensi plurimilionari di Fabio Fazio e di altri personaggi che in prima serata fanno (anche, ma non solo) propaganda politica con i soldi dei cittadini e bene fa Brunetta a invocare trasparenza su quei cachet. Non basta asserire che quei programmi, in virtù di roboanti ascolti, vengono interamente finanziati con la pubblicità. Bisognerebbe pretendere dai loro conduttori anche correttezza professionale e imparzialità, requisiti negati dalla stessa Agcom di recente, quando ha dato ragione a Brunetta a proposito della faziosità di Fazio e Annunziata.

E’ il sistema dei media nel suo complesso a dover essere rivisto. I grumi di interessi extragiornalistici che si addensano attorno ad esso lo rendono contaminato e poco credibile. Il governo, nella legge di stabilità, ha previsto 120 milioni di euro in favore dell’editoria. Di per sé un’iniezione di ossigeno per la democrazia, a patto che l’erogazione di quelle somme tenga conto anche di criteri meritocratici, di neutralità tecnologica (parità di opportunità anche alla Rete) e di effettiva attitudine dei media a considerare l’informazione un bene pubblico e non uno strumento di potere.