Carter, morto a 100 anni il presidente che varò la nuova sinistra
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James Earl “Jimmy” Carter è morto, dopo lunga malattia. Ricordato per il suo trionfo diplomatico, gli accordi di Camp David perse le elezioni a causa della rivoluzione in Iran. Traghettò la sinistra americana verso una visione post-cristiana.
L’ex presidente James Earl “Jimmy” Carter è morto, dopo lunga malattia, all’età di 100 anni. Il suo ultimo desiderio si è realizzato a metà. Aveva infatti espresso la volontà di arrivare vivo alle elezioni di novembre per poter votare Kamala Harris e di assistere alla vittoria della prima donna presidente. Ha votato, ma la candidata democratica ha perso contro Donald Trump. Carter è morto 22 giorni prima dell'insediamento del nuovo presidente repubblicano.
Carter era il più longevo fra gli inquilini della Casa Bianca. La sua presidenza coincise con la peggiore crisi di politica estera degli Stati Uniti e con una grave crisi economica. Nonostante alcuni successi storici, come la pace fra Egitto e Israele negoziata a Camp David sotto il suo patrocinio, venne associato ad alcune gravi sconfitte, soprattutto il tentativo fallito di liberare gli ostaggi statunitensi a Teheran e perse la rielezione nel 1980. La sua fede battista la visse da “cristiano adulto” (come direbbe Prodi) e segnò più di altri il passaggio del Partito Democratico da una visione cristiana ad una post-cristiana, con l’accettazione di tutti i “nuovi diritti”.
Già governatore democratico della Georgia, Carter venne eletto 39mo presidente nel 1976, in un momento molto difficile della storia americana. Due anni prima, Richard Nixon aveva dovuto rassegnare le dimissioni a seguito dello scandalo Watergate (fu accusato di spionaggio ai danni della Convention Democratica nelle elezioni del 1972). Un anno prima, nell’aprile del 1975, il Vietnam del Nord comunista completò la conquista del Sud, ponendo fine a dieci anni di guerra in cui gli americani avevano perso oltre 50mila uomini, nel fallito tentativo di difendere il governo di Saigon. Dal 1973, lo sciopero petrolifero dell’Opec (il cartello degli Stati produttori di petrolio), organizzato per indurre gli Usa e i governi europei a ritirare il loro appoggio a Israele, a seguito della guerra dello Yom Kippur, aveva innescato una spirale di recessione e inflazione. Carter ereditò tutti questi problemi ma li risolse solo in minima parte, a causa della sfortunata congiuntura internazionale, ma anche di una sua gestione debole.
La crisi economica venne gestita con un approccio assistenzialista, soprattutto con un piano di stimolo da 30 miliardi di dollari. Sebbene i primi due anni registrarono una ripresa, la crisi riprese violentemente alla fine degli anni ’70, con un’inflazione a due cifre e il ritorno di una fase recessiva. Colpa delle crisi internazionali del Golfo e dell’aumento dei prezzi da parte dell’Opec, ma anche di una politica fiscale molto espansiva e di una forte espansione monetaria da parte della Fed. Quando gli americani si ritrovarono a rispondere alla fatidica domanda elettorale “stai meglio oggi di quattro anni fa?” nel 1980 la risposta fu un corale: No.
La politica estera fu il cavallo di battaglia del 39mo presidente degli Usa e passò alla storia per aver negoziato la pace di Camp David fra Egitto e Israele, ponendo così fine a un trentennio di ostilità. Nonostante tutte le vicissitudini successive (due guerre del Libano, due sollevazioni palestinesi, due rivoluzioni in Egitto e la nuova guerra a Gaza ancora in corso) quella pace regge ancora oggi.
Tuttavia furono molte le sconfitte che resero Carter un presidente “debole” agli occhi degli americani. Prima di tutto la guerra fredda entrava in una nuova fase critica e l’Urss continuò ad espandersi durante tutto il suo mandato, con interventi militari in Angola, Etiopia, Mozambico e Yemen, l’appoggio della rivoluzione in Salvador e in Nicaragua, lo schieramento in Europa dei missili a raggio intermedio SS-20 e infine la clamorosa invasione dell’Afghanistan nel dicembre 1979. Carter ereditò dai predecessori Nixon e Ford una politica di distensione con l’Unione Sovietica, volta al disarmo nucleare bilaterale. Ma concluse la sua presidenza con una ripresa della tensione, quella che allora venne ribattezzata la “seconda Guerra Fredda”.
Da presidente Democratico ed erede della “nuova frontiera” di Kennedy, Carter puntò molto sul rispetto dei diritti umani, partendo da quegli accordi di Helsinki con il blocco orientale che il suo predecessore Ford aveva siglato nel 1975. Gli accordi, legalmente non vincolanti, prevedevano il riconoscimento delle frontiere del 1945, inclusa la divisione della Germania e l’annessione dei Paesi Baltici da parte dell’Urss. Ma prevedevano una tutela, controllata, dei diritti umani anche nel blocco orientale. A partire dal primo anno di presidenza Carter, tuttavia, il regime sovietico, con Brezhnev presidente, inasprì la repressione contro il dissenso. Il refusenik ebreo Anatolij Sharanskij venne arrestato nel 1977 e il fisico dissidente Sacharov fu confinato a Gorkij nel gennaio 1980 (per una manifestazione contro l’invasione dell’Afghanistan), dopo che non gli era stato neppure permesso di ritirare il Nobel per la Pace. L’accordo sui diritti umani si rivelò una beffa, ad ogni protesta statunitense, il regime brezneviano rispondeva con l’affermazione che fosse “una questione interna”.
La sconfitta peggiore tuttavia arrivò dall’Iran, tradizionale alleato degli Stati Uniti nel Golfo Persico. Una rivoluzione che il regime dello Scià di Persia non seppe gestire, limitandosi a scatenare violenza brutale contro gli oppositori, portò al rovesciamento della monarchia. Nella fase decisiva, Carter nel nome della democrazia scaricò l’alleato monarchico e ne facilitò la fuga dal paese. Ma non fu la democrazia a subentrare alla monarchia, bensì (dopo un brevissimo periodo di interregno) il ben più repressivo regime islamico guidato dall’ayatollah Khomeini: la Repubblica Islamica tuttora al potere. Proprio per favorire l’affermazione del nuovo regime, la guardia rivoluzionaria iraniana assaltò l’ambasciata degli Stati Uniti a Teheran e prese in ostaggio tutto il personale. Dopo il fallimento delle vie diplomatiche, Carter autorizzò l’azione di forza, il tentativo di liberare gli ostaggi con un raid dei marines. Il tentativo fallì miseramente nell’aprile del 1980, con la distruzione di quattro elicotteri, un aereo e otto morti. Il tutto senza mai aver incontrato il nemico. Un’umiliazione che a Carter costò molto cara nell’anno delle elezioni.
Nel novembre di quell’anno, infatti, vinse Ronald Reagan, con la promessa di ridare prestigio agli Usa nel mondo, sconfiggere l’Unione Sovietica e far rinascere l’economia americana. Tutti questi obiettivi vennero raggiunti nei due mandati di Reagan, confinando così Carter al ruolo storico di presidente debole e perdente.
Finito il periodo alla Casa Bianca, tuttavia, non finì l’attività politica di Carter che si reinventò nel ruolo di ambasciatore di pace, per conto dell’amministrazione Clinton e poi assieme a un gruppo di ex capi di Stato e di governo chiamato “The Elders”, gli anziani. È tuttavia difficile trovare qualche successo nelle pur meritorie opere di pace e di mediazione del Carter post-presidenziale. Nel 1994, per porre fine alla crisi militare fra Corea del Nord e del Sud, commise l’errore di consentire all’allora dittatore Kim Il-sung di portare a casa un accordo sul nucleare che permise al suo successore Kim Jong-il di sviluppare l’arma atomica nei dieci anni successivi. Viaggiò in tutto il mondo, dal Sudan alla Siria, da Cipro allo Zimbabwe, ma in nessuno di questi Paesi riuscì a porre fine al conflitto o alla violazione di diritti umani. Per la sua opera di diplomazia personale, comunque, fu insignito del Nobel per la Pace nel 2002. Fu poi mentore di un altro Nobel per la Pace (sulla fiducia): Barack Obama.
Sarebbe un’esagerazione definire Carter un presidente post-cristiano: rimase tutta la vita un battista del Sud. Ma spianò la strada alla trasformazione del Partito Democratico. Negli anni della sua presidenza si opponeva all’aborto, ma implementò la sentenza Roe vs Wade che lo legalizzava su scala nazionale. Negli anni 2000, molto dopo la sua presidenza, scrisse un libro a favore del diritto all’aborto, dimostrando di aver sposato la causa anche personalmente. Nel 2000 ruppe con la sua chiesa battista del Sud perché questa rifiutava le donne nel ruolo di pastore e negli anni successivi perorò la causa dell’eguaglianza delle donne anche in campo ecclesiastico. Quando si aprì il dibattito sulle nozze gay, Carter si disse subito a favore. “Anche Gesù sarebbe favorevole”, scrisse in un suo editoriale a favore del matrimonio omosessuale. Fu mentore di Obama che iniziò a introdurre i “nuovi diritti” sessuali come principi fondamentali. Per questo, Carter può essere ricordato come il presidente che ha traghettato la sinistra americana ad una visione post-cristiana.