Carla Bruni e il fascino maledetto di Battisti
La presenza, come ospite d’onore, al Festival di Sanremo di Carla Bruni ha indispettito le vittime del latitante Cesare Battisti, il quale in Francia godeva delle simpatie della gauche-caviar locale.
La presenza, come ospite d’onore, al Festival di Sanremo di Carla Bruni-Sarkozy ha indispettito le vittime del latitante Cesare Battisti, il quale, quando latitava in Francia (adesso latita in Brasile), godeva delle non dissimulate simpatie della gauche-caviar locale, gli intellò sinistri-chic di cui Carlà faceva parte (non in quanto intellò, figurarsi, bensì come semplice vip).
I parenti delle vittime del rivoluzionario riciclatosi prima in portiere di condominio e poi in autore di gialli (che s’ha da fa’ pe’ campa’…) hanno ormai rinunciato a ricevere giustizia, tanto sanno bene che, anche in caso di estradizione, qualche magistrato creativo sarebbe ben capace di rimandare il latitante, con tante scuse, al suo esilio dorato, e a spese del contribuente italiano.
Non si parli, per carità, di un eventuale-possibile blitz delle nostre teste di cuoio, tipo quelli che facevano gli israeliani con i criminali di guerra nazisti in Sudamerica. Il caso Abu Omar insegna. In Italia il magistrato creativo non arretra nemmeno di fronte al terremoto dell’Aquila: manda in galera chi ha osato non prevederlo e provoca, con ciò, esodi notturni a ogni minima oscillazione del goniometro.
In galera mezza Cia e quasi tutta l’intelligence italiana per attentato ai diritti civili di un mite predicatore del jihad. Dunque, il Battisti rimanga a Rio e ogni tanto mandi, se gli va, una cartolina a quell’ingrata Patria che non ha apprezzato i suoi metodi di novatore.
Tuttavia – dicono i parenti di quelli che tali metodi hanno sperimentato sulla propria pelle - almeno a Sanremo la ex prémiere dame poteva farsi precedere da un rammarico di cortesia. Non ci sarà, naturalmente.
Carlà ha rispettato il copione della kermesse sanremese, tra canzoni e gag con la Litizzetto. Ma donde, questa pendance, questa fatal attraction di tanti intellettuali, artisti, damazze, contesse, cantanti e comici per i rivoluzionari? Perfino personaggi a volte ricchissimi, come il fu editore Giangiacomo Feltrinelli, che non disdegnò di implicarsi personalmente nella bassa manovalanza dell’eversione. Il fatto è che la simpatia per il rivoluzionario l’hanno imparata a scuola. Ancora oggi nei manuali scolastici è tutto un peana ai moti, alle congiure e agli attentati nazionalistici dell’Ottocento.
Noi italiani non abbiamo angolo che non sia intitolato a Garibaldi e Mazzini, e le loro statue, piumeggianti di piccioni, ombreggiano le nostre contrade.
Il cosiddetto Risorgimento fu una rivoluzione bella e buona, ma è tipico dei rivoluzionari pretendere che la loro, di rivoluzione, sia quella definitiva. Loro sono i «buoni» e quelli che intenderebbero riprendere dal punto in cui loro si sono fermati sono «cattivi». Ma c’è sempre qualcuno più a sinistra di te, qualcuno più conseguente, qualcuno che vuole percorrere fino in fondo la strada che tu hai aperto.
Così, in Italia, il mito del «Risorgimento tradito» si è sommato a quello della «Resistenza» e, appena i tempi furono «maturi», forza con la fase finale per raggiungere il Sol dell’Avvenire una buona volta. Comunque, tutto è lì, nei manuali scolastici, dove fin da ragazzini si assorbe il principio che il ribelle –anche a mano armata- in nome di un ideale (meglio: ideologia) ha sempre ragione, che è lui nel «senso della storia» e che gli altri sono nel torto perché passatisti, conservatori, retrogradi e retrivi e reazionari (termini che da soli dicono come la pensa chi li usa).
Dunque, come meravigliarsi del favor rivolutionis che alberga nel cuore dell’acculturato? E in Francia è anche peggio, perché la mitologia rivoluzionaria è fondativa, la si trova nelle monete e sulle bandiere, nell’inno e nelle feste nazionali, nei fregi e nei monumenti, nella la?cité esasperata e nell’anticlericalismo viscerale di cui dal 1789 non si è più liberata.
In fondo, anche l’insignificante Battisti è un prodotto ultimo degli «immortali principi» inaugurati dal tutto-d’un-pezzo Robespierre, il primo homo ideologicus, l’inventore del terrore come strumento di lotta politica.