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APPELLO

Cari vescovi, alzatevi e dite no alle chiese chiuse

La decisione di chiudere le chiese a Roma, suggerita dalla CEI anche alle altre diocesi italiane, è senza senso, sia dal punto di vista della ragione che della fede. Decisioni dettate dalla paura di chi non pensa ci sia un futuro. Ci auguriamo che tale gesto scriteriato risvegli la coscienza di altri vescovi: si rifiutino di chiudere le chiese e anzi, davanti all'aggravarsi dell'epidemia, riprendano le Messe con il popolo.

Editoriali 13_03_2020 English Español

Non ci sono parole adeguate per descrivere il turbamento che ci ha preso alla notizia. Chiudere le chiese in tutta la diocesi di Roma. E presto in tutta Italia, come lascia intendere la nota del presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), cardinale Gualtiero Bassetti. Si tratta di una decisione senza senso, perfino diabolica. Le parole dei comunicati del cardinale vicario di Roma e del presidente della CEI lasciano sconcertati per l’irrazionalità di fronte alla pandemia in atto e per la concezione di Chiesa che manifestano.

Il comunicato del cardinale vicario di Roma suppone una situazione fuori controllo, addirittura sembrano parole scritte in fretta e furia un attimo prima di chiudersi alle spalle la porta della propria residenza per fuggire lontano dalla peste. Ma guardiamo la dimensione del fenomeno coronavirus: in tutto il Lazio a ieri sera c’erano 200 contagiati, di cui 162 nella provincia di Roma. In tutto il Lazio ci sono stati finora 9 decessi attribuiti al coronavirus, ma ancora da confermare; in ospedale sono ricoverate 85 persone e 20 sono in terapia intensiva. Ebbene soltanto l’area metropolitana di Roma capitale conta 4 milioni e 600mila abitanti, in tutto il Lazio sono meno di 6 milioni. Cioè i contagiati – non i morti, i contagiati – sono lo 0,003% della popolazione.

Non solo, la Regione Lazio ha deciso la settimana scorsa di aumentare rapidamente la disponibilità di posti di terapia intensiva di 157 unità, dedicate ai malati di coronavirus, in aggiunta ai 518 posti già esistenti. Proprio ieri è stato annunciato che nel giro di pochi giorni Roma avrà 72 posti in più. Vale a dire che sebbene la situazione crei un forte stress alle strutture sanitarie, è tutt’altro che fuori controllo. E i numeri sono talmente bassi che ci sarebbe ancora la possibilità di intervenire preventivamente con un’azione mirata sulla cerchia di contatti di coloro già trovati positivi.

Colpisce anche questa affermazione del cardinale Bassetti: «Un virus di cui non conosciamo la natura né la propagazione». In realtà si conosce sia l’una che l’altra, perfino il “suo” giornale Avvenire l’ha spiegato più volte. Ciò che non si ha a disposizione è un vaccino e delle terapie sicuramente efficaci, ed è qui la pericolosità. Ma di fronte alla paura, evidentemente la ragione non funziona più. Ecco, abbiamo un episcopato impaurito, smarrito di fronte a una pandemia dalle dimensioni neanche paragonabili alle grandi pandemie che nel passato hanno decimato intere popolazioni. E che prende decisioni contrarie sia alla fede che alla ragione.

Nei giorni scorsi, il monaco benedettino dom Giulio Meiattini ha scritto un’interessante riflessione sul panico generale che domina davanti al coronavirus: «In realtà, si ha troppa paura di morire, o anche solo di star un po’ male. E in questo momento la paura è spropositata rispetto alla minaccia in atto. E perché? Il motivo forse più profondo, o uno dei principali, penso sia una mancanza di prospettiva futura». Chi ha combattuto per la patria e la libertà era disposto a sacrificare la vita proprio «perché il futuro era un bene superiore al presente». Analogamente per i cattolici: «Il credente che preferisce rischiare la vita e perderla, piuttosto che rinnegare la sua fede, ha davanti a sé il futuro eterno, oltremondano, il paradiso». Oggi, invece, la nostra cultura non ha più un futuro, è appiattita sul presente, sull’effimero: «Se perdiamo il presente, perdiamo tutto». In generale dunque, «possiamo dire che l’epidemia in atto (…) in questo momento attinge tutta la sua forza, non dal numero delle vittime o dalla sua obiettiva pericolosità, ma dalla debolezza spirituale dell’umanità».

Non fa eccezione purtroppo la Chiesa, tutta ripiegata sul presente, che non giudica più a partire da una prospettiva eterna. Dice dom Meiattini: «La cosa più triste, e preoccupante per il futuro dell’umanità, è che la stessa Chiesa (o meglio gli uomini di Chiesa) hanno dimenticato che la grazia di Dio vale più della vita presente. Per questo si chiudono le chiese e ci si allinea ai criteri sanitari e igienici. La Chiesa trasformata in agenzia sanitaria, invece che in luogo di salvezza. Ci pensino bene i vescovi a chiudere le chiese e a privare i fedeli dei sacramenti, dell’eucaristia, che è medicina dell’anima e del corpo: chiudere le porte ai cristiani e pensare di potersela cavare con la scienza umana, è chiudere le porte all’aiuto di Dio. È confidare nell’uomo, invece che confidare in Dio».

Condividiamo ogni singola parola di questo giudizio. Si deve aggiungere che se anche la situazione fosse ancora più grave e perfino fuori controllo, a maggior ragione i vescovi dovrebbero aprire tutte le chiese e moltiplicare le messe. Il sottoscritto fa parte di quella generazione affascinata dai fratelli Blues «in missione per conto di Dio», la cui frase cult era: «Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare». Qui invece, ora che il gioco si fa duro i pastori dimostrano di essere molli e scappano a gambe levate. Uno spettacolo deprimente.

Vogliamo solo sperare che la decisione sciagurata della diocesi di Roma risvegli la coscienza di altri vescovi. Che sappiano riprendere in mano «la sacra potestà» loro affidata nelle rispettive diocesi – e che si sono fatta scippare dalle Conferenze episcopali – e si rifiutino di chiudere le chiese ai fedeli. Anzi, che proprio in ragione della gravità che l’epidemia sta assumendo, riprendano la celebrazione delle messe con il popolo, pur nel rispetto di tutte le precauzioni e condizioni suggerite dalle autorità civili. Sarebbe una grande testimonianza e un grande segno di speranza per tutti, l’indicazione che un futuro è ancora possibile.