Cari padri sinodali, non rubateci la speranza
Cari padri sinodali,
è proprio perché siamo peccatori che abbiamo bisogno di avere chiaro cosa è male e cosa è bene. Stabilire per principio che nella situazione di peccato si può permanere essendo contemporaneamente in stato di grazia, non è un atto di misericordia, è l’assassinio della speranza.
Cari padri sinodali,
in questi giorni sono stati diversi gli interventi dentro e fuori l’aula del Sinodo che hanno dipinto coloro che sono contrari alla comunione per i divorziati risposati come persone che vogliono una “Chiesa dei puri”, “dei perfetti”, perciò una Chiesa elitaria, mentre Gesù è venuto per i peccatori e la Chiesa deve essere aperta a tutti. Ovviamente questa descrizione fa la gioia di tanti giornalisti e intellettuali, che già di loro tendono a dividere la Chiesa in buoni e cattivi.
Ma non è questo il problema. Lo è invece il fatto che personalmente non mi ritrovo affatto in questo giudizio. Per quanto mi riguarda sono ben cosciente di essere un povero peccatore e di avere un estremo bisogno della Misericordia del Signore. Non potrei per questo vagheggiare una “Chiesa dei puri”, perché ne sarei irrimediabilmente escluso. Eppure sono contrario alla Comunione per i divorziati risposati, o comunque per chi vive in situazioni irregolari. Anzi, è proprio perché sono cosciente di essere un peccatore che sono contrario.
Provo a spiegarmi: la consapevolezza del mio peccato mi fa desiderare che qualcuno venga a salvarmi. E salvare vuol dire che qualcuno mi liberi da questa situazione, non che metta in pace la coscienza dicendomi che va bene così. È come quando uno è in mare aperto e sa di non sapere nuotare fino a riva: spera che passi una nave, una barca, andrebbe bene anche un gommone o una tavola di legno, qualcosa insomma che possa dare la possibilità di arrivare sano e salvo a riva, che faccia uscire dall’acqua. Che aiuto sarebbe se passasse un peschereccio e invece di trarre in salvo il naufrago i pescatori lo valorizzassero lodandolo per come sa stare bene a galla? Nell’immediato magari darebbe sollievo psicologico, ma sarebbe la condanna a morte.
Ecco, la speranza che mi è nata incontrando Cristo si fonda proprio nella certezza che un’altra vita è possibile; una certezza che nasce dallo sperimentare la misericordia di Dio ogni volta che cado, ma dove anche «propongo di non farlo mai più». È proprio questo proposito che mi rilancia nella vita. Per non stancarsi mai di chiedere perdono, come tante volte ci ha invitato papa Francesco, c’è bisogno di sapere che dalla mia condizione posso uscire. Concretamente, non metaforicamente. «Anch’io non ti condanno, Va’ e non peccare più». Se la frase di Gesù si fermasse a «..Va’» non ci sarebbe speranza, perché l’esperienza del peccato è davvero l’esperienza della morte; e bisogna sapere che c’è la vita per poter sperare.
Come nella parabola del padre misericordioso (o del figliol prodigo): il figlio si rende conto di aver sbagliato e abbandona il peccato per tornare alla casa del padre. Non ci torna con prostitute e maiali («nel senso del purcel», direbbe Jannacci), né il padre gli dice di andarli a prendere che tanto gli vuole bene lo stesso.
Se non fosse chiaro cosa è bene e cosa è male, e non fosse chiaro il confine da superare per passare da una condizione all’altra non ci sarebbe più neanche la speranza del bene.
Mi rendo conto che ci sono situazioni davvero difficili, di sofferenza, ma l’appartenenza alla Chiesa non coincide con l’accostarsi alla comunione. Perché non guardare e non ascoltare quelle tante coppie, tante famiglie che vivono quotidianamente la stessa o altre sofferenze seguendo le indicazioni della Chiesa e proprio per questo vi sperimentano un’appartenenza più profonda? Non possono queste essere un esempio anche per le altre coppie che si sentono frustrate? Se davvero siete pastori che sentono l’odore delle pecore non potete non conoscere esempi meravigliosi di coppie che si santificano nel seguire il magistero della Chiesa. Perché di queste coppie non v’è traccia al Sinodo?
Stabilire per principio (e ribadisco per principio) che nella situazione di peccato si può permanere essendo contemporaneamente in stato di grazia (condizione necessaria per accostarsi alla comunione), non è un atto di misericordia, è l’assassinio della speranza. Mantenere con chiarezza il confine tra il bene e il male non è la condanna di noi peccatori, ma la nostra speranza.
Papa Francesco tante volte ci ha invitato a «non lasciarci rubare la speranza».
Ecco, per questo cari padri sinodali, vi chiedo: a noi peccatori non rubate la speranza.
Riccardo Cascioli