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IL RICORDO

Cantoni, l'estremista della verità che non fu mai clericale

Se in Italia v’è ancora una cultura cattolica, se la prospettiva della regalità sociale di Cristo ha distolto da tanti vaneggiamenti la migliore gioventù anticomunista e anti-sessantottina, è merito suo. Un ricordo di Giovanni Cantoni da chi si definisce ancora oggi un suo figlio spirituale. 

Cultura 21_01_2020

Avevo poco più di vent’anni quand’ho incontrato Giovanni Cantoni di persona per la prima volta. Già avevo letto il suo saggio del 1972, L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, che introduceva l’edizione italiana di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione di Plinio Corrêa de Oliveira.

Sia l’autore che l’opera, fondamentale, tutt’ora insostituibile, fu Cantoni, per primo e a lungo l’unico, a farli conoscere e divulgare in Italia, nonché di entrambi fu il principale traduttore. Il suo saggio propone prima un’analisi della storia della nostra nazione, dal cosiddetto Risorgimento all’incipiente politica detta di «compromesso storico», cioè di compimento d’un itinerario che lo stesso autore definiva tentativo di «reinserire i comunisti nell’area di governo, e per indebolire e annullare ogni reazione a ciò contraria che provenisse dalla Gerarchia e dal popolo cattolico».

Ma soprattutto delinea i principi e l’orientamento d’un opera per la conservazione e la restaurazione d’una civiltà cristiana, cioè d’un habitat storico che intenda mantenersi all’interno dei confini della verità e della morale naturali e cristiane, come fu – naturalmente in modo sempre precario e imperfetto, come sono le cose di questo mondo – la prima cristianità occidentale, erosa dal plurisecolare processo rivoluzionario ostile alla Chiesa e al cattolicesimo.

Egli articola il suo discorso sempre alla stregua del Magistero pontificio e episcopale, nonché dell’opera dei padri del pensiero che fin dai primi momenti della Rivoluzione in Francia, quando essa passa dalla fase religiosa a quella politico-sociale, ne ricostruì idee, moventi, modalità operative e passaggi successivi, per idealmente armare e rendere consapevole, cioè globale e non settoriale, l’opposizione.

E di entrambi – del Magistero e del pensiero contro-rivoluzionario, cioè delle opere in cui è stato espresso, sia d’occasione che in maniera sistematica – egli aveva una non comune, direi quasi unica, conoscenza. Li possedeva.    

L’incontrai ad un ritiro di Alleanza Cattolica, associazione che fondò – del fondatore aveva il carisma pieno – non con un atto formale o volontaristico, ma organicamente, attraverso un instancabile peregrinare per l’Italia, incontrando gruppi e singoli per proporre loro la prospettiva contro-rivoluzionaria, e soprattutto un modo peculiare di perseguirla.

E questo modo era la militanza idealmente a tempo pieno, in una sorta di professionismo della Contro-Rivoluzione, speculare a quello leniniano della Rivoluzione, principalmente nel campo della battaglia delle idee. Una militanza fatta anzitutto (primato direi ontologico) di formazione spirituale intensa e ignaziana (non obbligo, ma consiglio forte, la pratica degli esercizi spirituali condensati in una settimana, secondo il modello elaborato per i laici da un gesuita, p. Vallet), studio assiduo e disponibilità ad essere presente e protagonista d’ogni momento di attività pubblica, all’insegna del motto dell’Azione Cattolica, Preghiera, azione, sacrificio.

Uno dei capisaldi dell’ininterrotta autoformazione per poter formare era appunto il ritiro, spirituale e culturale: un paio di giorni in cui venivano integrati preghiera e studio in una successione organica di Messa, preghiera (specialmente il rosario), adorazione e conferenze. Ed in queste ultime è stato ineguagliabile.

Non potrò mai dimenticare quel primo incontro sul finire del 1977. Il suo sguardo limpido che testimoniava la sincerità, l’onestà intellettuale del suo dire, la progressione geometrica delle sue argomentazioni, la capacità di farsi ascoltare – e così addestrare all’ascolto e alla concentrazione – anche oltre e ben oltre quelle che comunemente vengono definite curve dell’attenzione.

Ne fui conquistato, proprio per la severità d’impegno cui chiamava e la chiarezza del quadro da lui delineato. Come il suo saggio era stato per me una totale messa a fuoco della mia visione del mondo, della storia d’Italia – soprattutto riguardo il fascismo, sostanzialmente inquadrato come un fenomeno di sinistra, quindi rivoluzionario, sostenuto però da un consenso popolare naturaliter contro-rivoluzionario, in quanto timoroso più dell’altra faccia del socialismo, quella internazionalista-bolscevica – e delle principali categorie politico-culturali, allo stesso modo quel ritiro mi schiuse una diversa prospettiva esistenziale, tanto che subito tornai ai sacramenti, e dopo un turno di esercizi spirituali cominciai a fare Alleanza Cattolica.

Giovanni Cantoni fondò anche la rivista Cristianità, di cui fu direttore e soprattutto, diremmo, redattore-capo, anche in tempi in cui si faceva tutto a mano. E ascetica fu l’acribia con la quale reperiva testi, scriveva e commissionava piccoli e grandi saggi, controllava e faceva controllare citazioni e bozze. Credo sia la rivista in assoluto con il minor numero di refusi della storia editoriale pre-elettronica.

La collezione di Cristianità è un deposito ricchissimo di Magistero, dottrina, giudizi storici e priorità motivate per l’azione, cioè nient’altro che principi di riflessione, criteri di giudizio, direttive per l’azione, in cui consiste la Dottrina Sociale della Chiesa. Di cui Cantoni è stato sicuramente uno dei massimi conservatori – quando fu eclissata in una strana stagione ecclesiale –, interpreti e divulgatori.

Egli fu maestro di tanti. Certo, mio – senza aver alcuna colpa per l’esito –, tanto che posso dire che quel che penso e provo a fare, persino nella mia vita professionale, continua ad essere il portato dei suoi insegnamenti. Che non furono mai accademici, ma sempre in proiezione militante e, insisto, esistenziale. Quindi davvero maestro, non professore. Come ha detto Ettore Gotti Tedeschi, insegnò soprattutto a pensare e ragionare, prim’ancora che contenuti specifici, e uno stile di vita che aborriva ogni tipo d’improvvisazione e pressappochismo, soprattutto con l’esempio.

Per molti versi, questo il mio ricordo, un secondo padre. Conosceva praticamente tutti i militanti di Alleanza Cattolica, e a nessuno negava ascolto e importanza, pronto a rispondere – non s’è mai negato al telefono, quando questo era l’unico modo di comunicare a distanza – ai quesiti, ai consigli che gli venivano rivolti e richiesti, ma anche a interessarsi ad ognuno, alla sua famiglia, al lavoro. Ricordo ancora la sua telefonata commossa quando l’ultimo dei miei cinque figli entrò in seminario. Come un padre lontano, che ha lasciato una numerosissima progenie culturale nel senso più ampio dell’aggettivo.

Lettore che non si concedeva tregua – e perciò solo m’ha insegnato e indotto a leggere con metodo –, quando incontrava un autore non lo mollava. Ne cercava i testi originali, la letteratura critica, addirittura testimonianze. E così gli va riconosciuto l’enorme merito di aver portato in Italia – ma portato davvero, non semplicemente nominato –, tra altri, gli «sconosciuti» Gonzague de Reynold, storico svizzero, e Nicolàs Gòmez Dàvila, straordinario autore di aforismi colombiano.

Si diceva «estremista della verità». Uno dei suoi motti lo aveva mutuato dal conte Monaldo Leopardi, «La verità tutta, o niente». Come detto, fu conoscitore e seguace come pochi del Magistero. Tutto, non solo l’ultima novità: diceva sempre «enciclica non scaccia enciclica», proprio perché amava la Chiesa e il papato.

Quindi, non condivise e non praticò mai il «positivismo magisteriale», e non fu mai clericale. Giammai fu suo quell’atteggiamento un po’ molle per cui un chierico – quale che ne sia il rango – ha sempre ragione, e ciò soprattutto in questioni che cadono sotto la legittima autonomia di giudizio e d’azione dei laici. A mia scienza, né in questo, né in altri campi, fu mai reticente, mai si autocensurò, la disse sempre tutta, con stile, riguardo, ineccepibile forma. E questo in una dedizione inesausta all’opera che aveva fondato e a tutti noi che vi militavamo.

Potrei continuare per cartelle e cartelle questo mio ricordo, che vorrebbe essere gonfio di gratitudine. Mi fermo, senza però tralasciare una considerazione finale.

Sono moralmente certo che se in Italia v’è ancora una cultura cattolica, soprattutto nel versante coperto dalla Dottrina Sociale della Chiesa – in particolare, storia e teologia/filosofia della storia, le materie principali del tema Rivoluzione e Contro-Rivoluzione –, e una sensibilità e volontà contro-rivoluzionarie; se quella che lui chiamava «falsa destra», che inquinava la reattività anti-comunista e anti-sessantottina con prospettive paganeggianti, gnostiche, esoteriste, elitiste, nazional-rivoluzionarie, ha smesso da tempo di sedurre i più; se la prospettiva della regalità sociale di Cristo ha distolto da tanti vaneggiamenti la migliore gioventù (quella sì) anticomunista e anti-sessantottina, attraverso il riconoscimento della pratica e della cultura cattolica come unica alternativa possibile a ciò che avversava; ebbene tutto questo è un suo (forse quasi esclusivo, e certo non l’unico) merito, che spero da solo gli sia sufficiente per un ingresso diretto in Paradiso.

Il resto, oggi, non ha importanza. E se la mia strada da qualche anno – quando la malattia che lo tormentava lo colpì duramente – s’è divisa da quella di Alleanza Cattolica, non è certo perché io abbia mutato d’un ette la mia adesione a quanto Giovanni Cantoni ci ha insegnato anzitutto con la vita, poi con le parole, infine con gli scritti.