Cannabis, la legalità non è tutto. E l'educazione?
Le parole del presidente dell'Anticorruzione sulla canna libera risentono della parola totem “legalità”. Ma c'è un grande assente nel dibattitto sulla depenalizzazione della cannabis. Ed è l'aspetto educativo. «Serve un criterio educativo che aiuti a incanalare nei giovani i principi imparati come parte di un’esperienza e adulti che sappiamo provocare uno sguardo globale sulla vita, in un'ipotesi verificabile». Parla il vescovo Negri.
Ha parlato da padre. Ma siamo sicuri che un padre parlerebbe così? Le esternazioni del presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone sulla legalizzazione della cannabis hanno nuovamente polarizzato uno scontro politico destinato a riaccendersi tra poche settimane quando il disegno di legge sulla depenalizzazione tornerà in Parlamento per la discussione.
Un intervento intempestivo e strumentale? A sentire chi nel campo della lotta alla canna libera ha fatto una ragione di vita, sì, ma anche a sentire scienziati e magistrati impegnati nel campo del narcotraffico le critiche non sono state minori. Ma c’è un aspetto delle parole di Cantone, che in quanto presidente dell’Anticorruzione è diventato una sorta di sacerdote della legalità, che non è stato messo a fuoco.
E probabilmente rappresenta il motivo principale per cui le sue parole sono indigeste. «Parlo da padre, anche se non conosco la materia». Appunto. E’ in quella confessione autobiografica, ribadita poi il giorno dopo al Corriere che si intravede un grande deficit di prospettiva educativa da parte dell’autorevole magistrato.
Il quale ha affrontato l’aspetto della depenalizzazione guardandolo solo dal punto di vista della legalità. Parola totem oggi considerata un passepartout per accreditarsi il favore del mainstream. Ma siamo sicuri che il suo ragionamento sia stato educativamente parlando, giusto? Il difetto del dibattito sulla canna libera è che esclude a priori ogni tipo di considerazione educativa su un provvedimento che rappresenta già una sconfitta per uno Stato, da qualunque angolatura lo si guardi. Costringere il dibattito nello scontro tra legalità e proibizionismo è riduttivo e fuorviante. Che cosa giova a un adolescente il sapere di essere nella legalità se poi il “fumo” che acquista dallo Stato lo conduce alla perdita della sua stessa identità?
Perché che la cannabis sia distruttiva per il sistema nervoso centrale dell’uomo è materia che gli scienziati non si stancano mai di ripetere. Che cosa manca dunque nel discorso di Cantone, che è intervenuto a gamba tesa mostrando una velleità politica sospetta per un magistrato che dovrebbe occuparsi di tutt’altro?
Manca appunto lo sguardo educativo. Secondo il vescovo di Ferrara Luigi Negri - che sul tema dell’educazione ha dedicato la vita e il suo impegno culturale - non esiste questione di carattere etico e sociale che non debba essere riportata alla dimensione educativa». E «lo dico avendo di fronte proprio una società disintegrata come la nostra. Un criterio educativo che aiuti a incanalare i principi imparati come parte di un’esperienza dove possano essere attualizzati, pena il loro rimanere astratti e infruttuosi».
Negri riconosce che anche il tema della droga oggi risente di questa assenza. Un’assenza di criterio in cui «i grandi principi che vengono evocati ossessivamente nelle varie tragedie che interessano la vita sociale rimangono sullo sfondo perché non sono diventati esperienza». Ma per fare questo - e il prelato ferrarese lo dice senza fare riferimento al caso in cronaca, ma in generale -, perché ci sia educazione ci deve essere una realtà adulta provocatoria, che abbia uno sguardo globale sulla vita e sia in grado di proporla ai ragazzi in un’ipotesi verificabile e dimostrabile».
Ma quale verifica potrà mai esserci se si ha a che fare con la droga? «Non esiste proposta culturale ed esperienziale nel corso della quale si riesca a dimostrare che la droga sia un fatto positivo o comunque non negativo - dice -. Il fatto è che per dimostrarlo basterebbe un po’ di sano buon senso, ma come diceva Manzoni oggi il buon senso è finito in cantina».
Si resta così, dunque: con il mito della legalità a fare da cartina al tornasole di un dramma ben più ampio perché la legalità è mutevole e non può costituire criterio oggettivo per le scelte dato che, come auspicato con questo disegno di legge, ma lo si può estendere a tutte le altre piaghe che hanno scardinato l’antropologia umana, ciò che è illegale oggi domani potrebbe essere legale.
«Quello della legalità è un totem, una risultante della deriva di carattere tecnologico che però non tiene conto dell’aspetto più esauriente, quello della giustizia». Negri lo lascia appena abbozzato, ma il tema al fondo di tutto è che Cantone ha sollevato una questione decisiva: legalità non fa rima necessariamente con giustizia e quest’ultima non va confusa con il tentativo dell’uomo di regolare o di ridurre il danno di certi fenomeni.
«Perché la giustizia è esauriente - insiste Negri - e lo Stato dovrebbe limitarsi a dettare solo le condizioni per un esercizio vero della libertà dei singoli, ma anche dei gruppi o della Chiesa e intervenga in merito delle questioni etiche e sociali lo stretto indispensabile, perché la morale imposta con decreti o demolita con decreti è il segno di una grave crisi culturale».
Servono poche cose essenziali per la vita di una comunità, «una di queste, lo ripeteva sempre Giussani, è meno Stato, più società».