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IL DIBATTITO

Cancellare il Vaticano II? Un grave errore

Due interventi recenti di monsignor Carlo Maria Viganò e di monsignor Athanasius Schneider svolgono una critica radicale al Concilio Vaticano II, ritenuto responsabile delle deviazioni attuali dalla fede autentica. Nel primo caso si arriva perfino a proporre di cassare quel Concilio. Ma si tratta di un grave errore di prospettiva perché le eventuali ambiguità o incertezze dei documenti conciliari sono state chiarite dal magistero successivo di san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Come sempre è accaduto.

Editoriali 04_07_2020 English

Di recente ci sono stati due interventi di peso sul Concilio Vaticano II ed in particolare sull’insegnamento relativo alla libertà religiosa, presente nella dichiarazione Dignitatis Humanae.

Monsignor Carlo Maria Viganò, il 9 giugno, ha inviato al blog di Aldo Maria Valli (vedi qui), una lunga riflessione, la cui tesi fondamentale mi pare possa essere ritrovata in uno dei paragrafi iniziali: esiste «un legame causale tra i princìpi enunciati o implicati dal Vaticano II e il loro conseguente e logico effetto nelle deviazioni dottrinali, morali, liturgiche e disciplinari sorte e progressivamente sviluppatesi fino ad oggi. Il monstrum generato nei circoli dei modernisti poteva all’inizio trarre in inganno, ma crescendo e rafforzandosi, oggi si mostra per quel che veramente è, nella sua indole eversiva e ribelle. La creatura, allora concepita, è sempre la medesima e sarebbe ingenuo pensare che la sua natura perversa potesse mutare. I tentativi di correzione degli eccessi conciliari – invocando l’ermeneutica della continuità – si sono rivelati fallimentari: Naturam expellas furca, tamen usque recurret (Orazio Epist. I,10,24)».

Il 27 giugno sullo stesso blog, è stata riportata la traduzione di un’intervista che lo stesso Viganò aveva rilasciato al direttore di Catholic World News, Philip F. Lawler, ribadendo più o meno l’idea del fallimento della linea che ha caratterizzato particolarmente il pontificato di Benedetto XVI. La posizione di Viganò è sostanzialmente quella di cassare il Vaticano II, destinandolo all’oblio.

Diversa la posizione di monsignor Athanasius Schneider, che circa un mese fa, il 1° giugno, aveva offerto a LifeSiteNews un’articolata riflessione sulla libertà religiosa (qui in lingua italiana). Secondo Schneider, il documento di Abu Dhabi, firmato il 4 febbraio 2019 da papa Francesco, sarebbe lo sviluppo logico di un errore presente nella dichiarazione Dignitatis Humanae. L’affermazione che Dio vuole positivamente la diversità religiosa discenderebbe consequenzialmente dall’affermazione conciliare del diritto a non essere forzati «ad agire contro la sua coscienza [e di non essere] impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata» (DH, 2).

Il 24 giugno, si è inserito nel dibattito il cardinale Walter Brandmüller, pubblicando sul blog di Marco Tosatti (vedi qui) un suo precedente intervento dal titolo Il Concilio Vaticano II: la difficoltà dell’interpretazione. Brandmüller mette in luce le caratteristiche particolari di questo Concilio, che non ha voluto definire dogmi, ma ha dichiarato il suo carattere pastorale. Tuttavia, ciò non significa che i testi del Vaticano II abbiano l’autorità di una chiacchierata tra ecclesiastici. La soluzione a chi dogmatizza ogni intervento avvenuto nella Basilica Vaticana durante l’assise non è la riduzione dei suoi testi a mere opinioni. E’ di fondamentale importanza capire, spiega il Cardinale, che «il carattere vincolante dei testi conciliari è quindi di grado diverso».

Il secondo punto messo in luce, è il fatto che i documenti del Concilio riflettono una precisa volontà di ancorarsi alla tradizione. Segno di ciò sono i numerosi riferimenti ai Concili e Papi precedenti, ai Padri della Chiesa ed ai Dottori. Questo dato significativo indica che il contesto ermeneutico dei documenti del Vaticano II è la tradizione della Chiesa: «Una preoccupazione centrale tangibile in molte affermazioni di Benedetto XVI è stata quella di mettere in risalto lo stretto collegamento organico del Vaticano II con il resto della Tradizione della Chiesa, evidenziando così che un’ermeneutica che crede di scorgere nel Vaticano II una rottura con la tradizione sbaglia».

In effetti, non è possibile liquidare frettolosamente l’ermeneutica della continuità, dichiarandola fallimentare; la ragione è che non esistono testi senza contesti. Il punto è capire qual è il criterio interpretativo adeguato di un documento che intende esprimere, sia pure con un linguaggio più pastorale e non definitorio, la fede della Chiesa. Un testo conciliare – ed ancor più l’intero corpus – per sua natura richiede di essere interpretato all’interno di una continuità armonica con la tradizione: è questo il suo habitat naturale. Di fronte ad eventuali testi ambigui, imprecisi, problematici, nell’interpretazione dei quali il dibattito teologico successivo - ed ancor più quello mediatico -  ha preso una piega eterodossa, la prassi costante è che il Magistero faccia chiarezza.

Ed è quello che è sempre accaduto, anche dopo il Vaticano II. Brandmüller fa notare che, per esempio, la dichiarazione Nostra aetate non può più essere interpretata come se Dominus Iesus non sia mai esistita. Lo stesso vale per Unitatis Redintegratio, Dignitatis Humanae, il subsistit in, l’espressione “chiese sorelle”, etc. «Questa “ermeneutica della rottura” viene fatta tanto da coloro che nel Vaticano II vedono un allontanamento dalla fede autentica, dunque un errore o addirittura un’eresia, quanto da coloro che attraverso una tale rottura con il passato volevano osare una coraggiosa partenza verso nuovi lidi».

Mi pare che entrambe le correnti abbiano una caratteristica comune: quella di saltare a piè pari i quasi sessant’anni di Magistero successivo al Vaticano II, che include, tra l’altro, un voluminoso Catechismo della Chiesa Cattolica; chi per continuare a dire che i testi del Concilio hanno rotto con la tradizione a prescindere da quanto è stato chiarito in seguito, e chi per rivendicare un’interpretazione progressista di quei testi, libera dai “restrittivi” chiarimenti successivi. «Sarebbe un errore grave – spiega Brandmüller - non tenerne conto [dei documenti del Magistero postconciliare] nell’interpretazione del Concilio per il tempo attuale e comportarsi come se il tempo si fosse fermato al 1965».

Un altro errore comune alle due correnti appare quello di divaricare il fatto del Concilio, la res dei suoi documenti e la loro interpretazione, al punto tale da separarli radicalmente. I documenti del Vaticano II esistono, con le loro glorie e le loro pecche. Ma essi si incastonano all’interno di una tradizione che li precede e li segue. E’ questo il loro naturale contesto interpretativo. Detto in altre parole, per richiamare il titolo di un libro di Stefano Fontana di qualche anno fa, il Concilio chiede di essere restituito alla Chiesa, liberato da ogni tipo di ideologia. E’ la Chiesa che ha prodotto quei testi ad essere il loro contesto interpretativo adeguato. La Chiesa che si estende in tutta la sua storia e che è radicata nell’eternità.

Anche la questione sulla libertà religiosa è stata illuminata nel tempo successivo al Concilio da diversi importanti studi teologici, che hanno chiarito come quel diritto non riguardi il rapporto tra l’uomo e la verità, quasi fosse la rivendicazione del diritto all’errore, quanto piuttosto un diritto all’immunità da coercizione di fronte allo Stato, un diritto ad esigere di non subire coazione. Si tratta di un diritto negativo (esigere di non subire coazione), di un limite posto allo Stato nei confronti della persona, nella sfera religiosa. Il riconoscimento di questo diritto da parte dello Stato non entra nel merito del contenuto della scelta religiosa, quanto piuttosto nel fatto di non avere competenza in questa sfera, a meno che alcune scelte religiose non ledano il bene comune.

La questione non è certo chiusa. Proprio per questo è di fondamentale importanza raccogliere l’invito del Cardinale ad «andarci piano [...] nel dibattito sul Vaticano II e la sua interpretazione, che deve a sua volta avvenire sullo sfondo della situazione mutata nel tempo. A tale riguardo il magistero dei papi postconciliari ha dato contributi importanti, di cui però non si è tenuto sufficientemente conto, mentre bisognerebbe prenderne atto proprio nel dibattito attuale», ricordando che «le difficoltà nell’interpretazione dei testi conciliari non derivano soltanto dal loro contenuto. Bisognerebbe tenere in considerazione sempre più il modo in cui si svolgono le nostre discussioni a riguardo».