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CRIMINI DEL COMUNISMO

Cambogia, fu genocidio: arriva la sentenza storica

Il Tribunale speciale per la Cambogia ha emesso una sentenza storica. Ha condannato per genocidio Nuon Chea, 92 anni (il n. 2 del mostruoso regime comunista dei Khmer rossi) e Khieu Samphan, 87 anni, che è stato il capo di Stato della “Kampuchea democratica”. E' la prima volta che quell’accusa terribile viene pronunciata e ratificata ufficialmente

Esteri 17_11_2018
La conferenza stampa dopo la sentenza storica

Ieri il Tribunale speciale per la Cambogia (Extraordinary Chambers in the Courts of Cambodia), istituito nel 2016 grazie a un accordo fra il Paese indocinese e le Nazioni Unite, composto da giudici cambogiani e internazionali, e presieduto dal giudice Nil Nonn, ha emesso una sentenza storica. Ha condannato per genocidio Nuon Chea, 92 anni, che era il n. 2 del mostruoso regime comunista dei Khmer rossi di Pol Pot (alias Saloth Sar, 1925-1998), e Khieu Samphan, 87 anni, che è stato il capo di Stato della “Kampuchea democratica”. Al lato pratico per i due gerarchi rossi cambia poco: scontano l’ergastolo per crimini contro l’umanità dal 7 agosto 2014, ora ne sconteranno - si fa per dire - due. Ma è la prima volta che quell’accusa terribile viene pronunciata e ratificata ufficialmente da un’aula di giustizia cambogiana, e non da una qualunque, ma precisamente da quel tribunale ad hoc sostenuto dall’ONU che in dieci anni di ricerche ha speso ben 300 milioni in dollari statunitensi.

Nell’aprile 1975 Pol Pot - grande ammiratore della Rivoluzione Francese (1789-1799) e amico di certa gauche-caviar parigina, per esempio Jean-Paul Sartre (1905-1980) - porta al potere in Cambogia l’ala nazionalista e filocinese dei Khmer rossi: khmer perché così si chiama l’etnia maggioritaria del Paese (87%), rossi poiché seguaci del Partito Comunista della Kampuchea (Cambogia in lingua khmer). Il Paese piomba nel baratro. Il modello è Mao Zedong (1893-1976), ma soprattutto lo sono le rieducazioni, i laogai, gli stermini di massa, le utopie economiche, gli esperimenti sociali (e quelli medici) e la persecuzione delle religioni. Gli stranieri vengono espulsi o uccisi, le frontiere chiuse, anche con l’Unione Sovietica. Il “socialismo agrario” schiavizza i cambogiani, che faticano solo per produrre carestie. Le professioni “borghesi” (insegnanti, avvocati, medici) sono cancellate, scuole e ospedali vengono chiusi. La medicina occidentale è sostituita da “rimedi nazionali”. Banche, finanza e denaro sono aboliti, lo stesso la magistratura. Le religioni sono dichiarate fuorilegge ed estirpate da organismi appositi. Possedere manufatti occidentali è un reato capitale, come parlare una lingua estera o portare quegli occhiali che consentono di leggere le “bugie” straniere. Viene cambiata la lingua e rifatto il calendario: quello rivoluzionario fissa l’“Anno zero” alla presa del potere di coloro che, rifiutando il nomignolo “monarchico” di “Khmer rossi”, si definiscono “Khmer prima dell’Anno zero”.

Al governo c’è il “partito-Stato-dio”, letteralmente. Pol Pot e i suoi sodali postulano infatti all’origine di tutto e sopra tutto l’“Angkar Padevat”, cioè l’“Organizzazione Rivoluzionaria”, ovvero l’“Angkar Loeu”, cioè l’“Alta Organizzazione”: è un’oscura entità superiore a qualsia altra cosa, di cui persone e cose sono solo strumenti. Il popolo deve adorarla come “divinità politica”. È il diritto, la giustizia, il guardiano della rivoluzione, la misura di ogni cosa, il boia contro i “nemici del popolo”. I suoi “sacerdoti” sono i membri del “Nucleo del Partito”, ossia il comitato centrale del “Kena Mocchhim”, cioè l’“Apparato del Partito”. Assumono il titolo di “Fratello”, seguito da un numero progressivo. Quando si dice che Nuon Chea era il n. 2 del regime la cosa è letterale. Tornano alla mente gli studi del filosofo della politica tedesco-statunitense Eric Voegelin (1901-1985) sulle ideologie come fedi immanenti e “religioni capovolte”, e torna alla mente il nazional-comunismo, a forte tinte razzistiche, che spadroneggia in Corea del Nord con il nome di Juché, ma pure che tutti i “socialismi reali” sono stati nazionalismi rossi e i socialismi bruni “fascismi rossi”.

Il regime di Pol Pot crolla quando il 7 gennaio 1979 il Vietnam comunista ma filosovietico invade Phnom Penh. I vietnamiti fanno i conti e parlano di 3,3 milioni di vittime. Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America ne calcola 1,2 milioni, l’Università Yale 1,7 milioni e lo studioso Rudolph J. Rummel (1932-2014), dell’Università delle Hawaii, autore del fondamentale Stati assassini. La violenza omicida dei governi (trad. it. a cura di Stefano Magni, Rubbettino, Soveria Mannelli [Catanzaro] 2005), 2 milioni. Pol Pot ne ha ammessi 800mila. Il censimento del Paese nel 1972 aveva contato 7,1 milioni abitanti: il che significa che da metà del 1975 alla fine del 1978, è stato eliminato – calcolando prudentemente – più del 25% della popolazione.

Il punto però è che non si è mai riusciti a inchiodare gli assassini a queste responsabilità. Oltre a Nuon Chea e a Khieu Samphan, in carcere c’è solo Kaing Guek Eav, noto con il nome di battaglia di “Duch”. Il 26 luglio 2010 è stato condannato per crimini contro l’umanità a una pena di 35 anni di prigione poi commutati in ergastolo il 3 febbraio 2012. Comandava la polizia speciale Santebal, cioè “Custodi della Pace”, incaricata della sicurezza interna e dei campi di internamento. È riuscito a macchiarsi della morte di oltre 17mila persone nella ex scuola superiore di Tuol Sleng, ribattezzata burocraticamente Prigione di Sicurezza 21 (S-21), alla periferia di Phnom Penh, ora un museo. Ieng Sary (1925-2013), il n. 3 del regime, ministro degli Affari Esteri, e sua moglie, Ieng Khieu Thirith (1932-2015), ministro degli Affari sociali (e sorella di una prima moglie di Pol Pot), hanno vissuto in una villa lussuosa e barricata nella zona meridionale della capitale fino all’arresto, il 12 novembre 2007. Portati in giudizio, lei era troppo malata di demenza per sostenere il processo e lui, accusato formalmente di genocidio il 16 dicembre 2009, è morto prima di arrivare a sentenza.

Tutto qui. Il perché così pochi è complesso, e a che a fare con collusioni, connivenze e convenienze internazionali. Il perché non si riesca a incriminare i Khmer rossi per genocidio (ma “solo” per crimini contro l’umanità) riguarda proprio il concetto di genocidio. “Genocidio” è un neologismo dallo specifico valore giuridico, forgiato nel 1944 dall’avvocato polacco Raphael Lemkin (1900-1959) a fronte della Shoà: lo sterminio premeditato e sistematico di un gruppo umano omogeneo e comunque identitaro sul piano etnico, culturale o religioso, anche se poi la definizione è stata sempre usata solo con accezione etnica (gli armeni, per esempio, e giustamente, mentre il genocidio culturale-religioso della Vandea tra 1793 e 1794 viene ignorato). Una definizione rigida dalla logica forte, ma pure dai limiti evidenti. Perché infatti non anche gruppi umani identificabili sul piano per esempio sociale o economico, oppure i “non comunisti” invisi a Pol Pot?

Del resto l’identificazione di un gruppo umano omogeneo può essere oggetto di capziosità da parte di chi è in malafede sull’argomento genocidio. Quando la comunità internazionale adottò questa definizione dopo la Seconda guerra mondiale, non sempre i suoi membri lo hanno fatto in buona fede: l’Unione Sovietica vi ha per esempio visto il modo per escludere l’Holodomor, il genocidio ucraino per carestia indotta consumatosi tra 1929 e 1933. Quegli ucraini, infatti, sfuggivano alla classificazione lemkiniana, soprattutto se applicata rigidamente. Ebbene, vi sfuggono anche le vittime cambogiane né etnicamente diverse dai loro boia cambogiani né facilmente identificabili come gruppo culturale (o religioso) specifico.

Ieri, infatti, Nuon Chea e Khieu Samphan sono stati riconosciuti colpevoli sì di genocidio, ma il primo di genocidio nei confronti della minoranza vietnamita presente in Cambogia e della minoranza musulmana dei Cham, mentre il secondo di genocidio verso la sola minoranza vietnamita (e non verso i Cham). Fattore decisivo, questo, per gettarli in carcere, ma così il mostruoso “autogenocidio” compiuto dai cambogiani comunisti contro il resto della popolazione cambogiana non comunista sfuma, e questo nonostante lo sappiano tutti che quello compiuto dal regime comunista di Pol Pot sia stato un vero e proprio genocidio documentato da libri, film e persino musei dell’orrore.

Il mondo è però fortunatamente più ampio delle aule dei tribunali. Da molto tempo gli studiosi hanno infatti separato il concetto di genocidio dall’appartenenza etnica, contemplando persino il concetto di “genocidio freddo”, ovvero lo sradicamento metodico di un gruppo umano attraverso uccisioni, incarcerazioni e torture nel corso di un periodo di diversi anni. Tutto questo rafforza, ma pure allarga il fondamentale concetto di “genocidio culturale”. Se quindi i tribunali internazionali tenessero il passo degli specialisti accademici, anche il regime criminale di Pol Pot potrebbe finalmente essere inchiodato per ciò che davvero ha fatto. Verrà quel giorno? Se sì, vedremo allora finalmente salire sul banco degli imputati anche il principale sostenitore della Kampuchea genocida di ieri, un Paese che i genocidi continua però a compierli anche oggi: la Cina.