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Cambiare casacca è un diritto. Capito Salvini e Grillo?

Dall’inizio della legislatura, circa due anni fa, ben 173 parlamentari hanno cambiato casacca e sono approdati a partiti diversi da quelli con i quali erano stati eletti. Non è una novità. C’è chi grida allo scandalo, ma questo è un diritto garantito dalla Costituzione che nega il vincolo di mandato parlamentare.

Politica 10_02_2015
Matteo Salvini, segretario della Lega

Dall’inizio della legislatura, circa due anni fa, ben 173 parlamentari hanno cambiato casacca e sono approdati a partiti diversi da quelli con i quali erano stati eletti. Non è una novità. Basta rileggere la storia delle sedici legislature precedenti per riscontrare costantemente esempi di trasformismo, in tutte le aree politiche. C’è chi grida allo scandalo e chi giustifica questi passaggi da una sigla all’altra come libero esercizio del mandato parlamentare.

L’episodio che ha fatto riesplodere la polemica sul vincolo di mandato ha riguardato otto parlamentari di Scelta civica che hanno deciso di lasciare il movimento fondato da Mario Monti e di iscriversi al Pd. «Presa d’atto della fine di un’esperienza e desiderio di confluire in un disegno riformista più ampio»: questa la spiegazione ufficiale. «Cinico calcolo politico», la replica di chi è rimasto in Scelta civica. Alla vigilia dell’elezione del Presidente della Repubblica, nove parlamentari del Movimento Cinque Stelle avevano abbandonato Grillo per iscriversi al gruppo misto, preludio, secondo alcuni, di un loro ingresso nell’area governativa come portatori d’acqua e di voti in aula, al fine di puntellare i numeri dell’esecutivo Renzi.

Sia Matteo Salvini sia Beppe Grillo hanno reagito con veemenza, additando i fuoriusciti quali “traditori” e invocando la riforma dell’art. 67 della Costituzione, che prevede il divieto di mandato imperativo: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». In altri termini, il singolo parlamentare può cambiare partito e restare in carica, in nome del principio della libertà di esercizio del suo ruolo. L’art.67, che è simile all’art. 41 dello Statuto Albertino (1848), fu scritto in quel modo proprio per garantire la libertà d’espressione ai membri del Parlamento che hanno certamente una responsabilità politica nei confronti dei loro elettori, ma che possono dissociarsi dalle direttive dei rispettivi partiti ove le ritenessero in contrasto con la propria coscienza. Anche i regolamenti parlamentari consentono l’autonoma iscrizione a parlare per quei parlamentari che vogliano esprimere posizioni dissenzienti rispetto al gruppo di appartenenza.

Secondo Grillo e Salvini, invece, i parlamentari dovrebbero diventare dei burattini telecomandati dai loro elettori, che potrebbero in qualunque momento ottenerne le dimissioni in caso di uscita dal partito nel quale erano stati eletti. Il leader della Lega ha annunciato che presenterà a breve un disegno di legge costituzionale per abolire il divieto di vincolo di mandato. «Se uno viene eletto con un partito», ha detto, «e in corso d’opera si trova in disaccordo con il partito con il quale è stato eletto non può cambiare casacca: si dimette». Sulla stessa lunghezza d’onda i vertici del Movimento Cinque Stelle. Perfino il premier, prima di conquistare Palazzo Chigi, ad una domanda sui numerosi casi Scilipoti, rispose secco: «Chi tradisce i suoi elettori dovrebbe dimettersi».

Ma la norma dell’art. 67 della Costituzione è in realtà presente in tutte le democrazie rappresentative. Fondamento ideologico del divieto di mandato imperativo, essenza della democrazia rappresentativa, è il celebre discorso pronunciato da Edmund Burke agli elettori di Bristol il 3 novembre 1774, la cui frase chiave fu: «Il Parlamento non è un congresso di ambasciatori di opposti e ostili interessi, interessi che ciascuno deve tutelare come agente o avvocato; il Parlamento è assemblea deliberante di una nazione, con un solo interesse, quello dell'intero, dove non dovrebbero essere di guida interessi e pregiudizi locali, ma il bene generale». Dunque, gli eletti non devono agire esclusivamente a difesa degli interessi dei propri elettori, ma discostarsi, se occorre, dagli interessi di chi li ha votati, per perseguire il bene comune, anche se quest’ultimo fosse in contrasto con i primi.

Deputati e senatori esercitano dunque la rappresentanza dell’intera nazione e non dei singoli gruppi o partiti o alleanze o movimenti o dei singoli cittadini. È dunque pienamente legittimo il passaggio di un parlamentare a un altro gruppo. Spesso può risultare disdicevole, ma l’elettore avrà comunque la possibilità, nella tornata elettorale successiva, di non votare per quel parlamentare ove lo ritenesse inaffidabile nelle sue scelte di schieramento. Il vincolo di mandato era invece praticato negli Stati di matrice socialista, che assoggettavano a vincolo il mandato rappresentativo dei membri delle assemblee ai diversi livelli territoriali, fino al Parlamento nazionale. Attualmente sopravvive in alcuni Stati come l’India o il Bangladesh.

La verità è che nella storia d’Italia il trasformismo è presente almeno dal 1880 come prassi comune a tutti i gruppi parlamentari di variare le maggioranze in base a convergenze di intenti su problemi circoscritti o su singoli provvedimenti da approvare. Negli ultimi decenni ha acquisito un’accezione puramente negativa, identificando in chi trasmigra da un partito all’altro un opportunista legato esclusivamente alla cadrega o mosso semplicemente da calcoli convenientistici. 

Il problema, dunque, non è tanto quello di modificare un articolo della Costituzione che appare ispirato a nobili principi e che si ritrova con parole pressoché identiche nelle Carte Costituzionali degli altri Stati democratici, bensì quello di far crescere la cultura politica, di attuare finalmente l’art.49 della Costituzione sulla democrazia dei partiti, e di varare leggi elettorali in grado di favorire la stabilità e di scoraggiare ribaltoni e manovre di Palazzo. In fondo, gli attuali meccanismi di composizione delle liste e di cooptazione aleatoria dei candidati consentono ai capi partito di controllare deputati e senatori mediante la minaccia della non rielezione. Grillo e Salvini sbagliano dunque bersaglio e fanno demagogia senza affrontare i veri nodi della crisi della rappresentanza nel nostro Paese.