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IL LIBRO

Buzalka, il martire slovacco che non si piegò al nazismo

Il libro sul vescovo martire Michal Buzalka che si spese per salvare tutti gli ebrei che poteva, fu processato dai nazisti e condannato a ventiquattro anni di carcere. E poi morì nella Slovacchia sovietica. 

Ecclesia 27_04_2022

La Slovacchia è cattolica, la sua bandiera nazionale è una croce doppia (detta anche patriarcale). Per lungo tempo il clero è stato per necessità il suo ceto colto; da qui, raggiunta l’indipendenza, un prete come presidente della repubblica, Jozef Tiso (poi vittima dei regolamenti di conti postbellici nel 1947). Malvolentieri appiccicata alla Cekia nell’artificiale Cecoslovacchia, vaso di coccio tra l’impero nazista e quello comunista, ha anch’essa i suoi martiri in attesa di beatificazione.

Uno di questi è il vescovo Michal Buzalka, il cui postulatore, Peter Slepčan, ha appena pubblicato in libro insieme a Róbert Letz: Una voce in difesa. Episcopato slovacco e diplomazia pontificia contro lo sterminio nazista (Libreria Editrice Vaticana. Pontificio Comitato di Scienze Storiche, pp. 445, s.p.). Nel 1938 mons. Buzalka, nato nel 1885, divenne vescovo ausiliare di Trnava e subito si diede da fare per sottrarre quanto possibile la gioventù slovacca alle sirene naziste. Fu presidente dell’Azione Cattolica e caporedattore del quotidiano «Slovák», organo del Partito Popolare. Nel 1939 fondò l’Ufficio Stampa Cattolica per coordinare e indirizzare le moltissime pubblicazioni cattoliche del Paese. Non gli bastò e creò un settimanale cattolico di taglio professionale, cioè in grado di tener testa agli omologhi laici a tiratura nazionale, il «Katolicke noviny».

Erano i giorni in cui la famosa «crisi dei Sudeti», risolta con la conferenza di Monaco, aveva ridato autonomia alla Slovacchia, il cui presidente, Tiso (di origine italiana), dovette cominciare a barcamenarsi con gli ingombrati vicini e soprattutto, in quel momento, con la Germania. Il cattolicesimo rappresentava nel Paese quel che era anche per i polacchi: l’identità. La fedeltà al papa, Roma come faro e riferimento in quegli anni tempestosi, furono per la Slovacchia l’àncora che le permise di non farsi risucchiare culturalmente e, per quanto possibile, anche politicamente dai due giganti atei del XX secolo. Roma lo comprese benissimo e, infatti, la Santa Sede fu tra le prime a riconoscere la nuova Repubblica.

Ma la prossimità a Hitler voleva dire anche prestarsi al programma antisemita, cosa che l’episcopato slovacco rifiutò energicamente, rigettando le discriminazioni contenute nel «Codice ebraico». Ma c’era una guerra in corso e la Slovacchia era di fatto un satellite della Germania. Tiso fece ricorso a tutte le sue risorse diplomatiche, ma poté solo smussare gli spigoli più acuti della legislazione antiebraica, come del resto fecero gli italiani. Dopo i nazisti, i comunisti, e Tiso finì impiccato.

Buzalka, malgrado si fosse speso per salvare tutti gli ebrei che poteva, fu processato e condannato a ventiquattro anni di carcere. Non che ai nuovi governanti di obbedienza sovietica importasse più di tanto degli ebrei, ma, come i predecessori nazisti, sapevano che in Slovacchia, come in Polonia, il clero era anche ceto di riferimento per il popolo e perciò occorreva decapitarlo. Buzalka morì nel 1961 in piena era Kruscev, in quel «disgelo» di cui aveva fatto le spese l’Ungheria pochi anni prima. Il libro di Slepčan-Letz è una vera miniera di informazioni, documenti e foto. Per una storia cattolica che conosciamo poco.