Bush, il presidente di destra rimpianto dalla sinistra
George Bush, 41mo presidente americano è scomparso il 30 novembre all'età di 94 anni. Lo ricordano con affetto i suoi avversari. Compreso Gorbachev, che vide letteralmente collassare l'Urss proprio nell'era Bush. La cosa non stupisce: allora come oggi, per il suo "pragmatismo" Bush era un repubblicano dall'anima progressista.
Venerdì 30 novembre notte, all’età di 94 anni, è morto George W.H. Bush, 41mo presidente degli Stati Uniti, in carica dal 1989 al 1993. Nel mondo è noto per i suoi successi della politica internazionale. Ha posto definitivamente fine alla Guerra Fredda, assistito la riunificazione della Germania, vinto la Guerra del Golfo, chiuso gli occhi all’Unione Sovietica. Oggi lo ricordano tutti con parole di encomio. Tutti, ma soprattutto i suoi avversari e nemici di allora. Apparentemente è un paradosso della memoria. A ben vedere non lo è. Il presidente Bush, infatti, contrariamente al predecessore Ronald Reagan e al figlio George W. Bush, è il presidente repubblicano preferito dai progressisti, per molti e fondati motivi.
Bush fu l’ultimo veterano della Seconda Guerra Mondiale a sedere alla Casa Bianca: combatté come pilota della marina sul fronte del Pacifico. La sua carriera politica iniziò subito dopo la guerra, divenne due volte deputato negli anni 60, ma quando si candidò per il Senato, nel 1970, fu battuto dal suo avversario democratico Ralph Yarborough. Da quel momento iniziò la sua seconda carriera, più internazionale, scelto personalmente dall’allora presidente Richard Nixon, come ambasciatore alle Nazioni Unite. Il presidente Gerald Ford lo nominò inviato alla missione diplomatica in Cina, quando i rapporti diplomatici fra Washington e Pechino non erano ancora stati formalizzati. Infine, nel 1976, divenne direttore della Cia. Ruoli più da funzionario che da politico, in quello che oggi verrebbe definito lo “Stato profondo”. In questo periodo si formò gran parte delle sue idee sulla politica estera, oltre che un suo peculiare carattere internazionalista, più tipico dei politici della costa orientale, più europeizzato, rispetto al territorio (il Texas) che rappresentava.
Nel 1980, quando si trattò di sfidare l’ormai impopolare presidente democratico Jimmy Carter, il Partito Repubblicano elesse Ronald Reagan. George Bush, suo rivale interno nelle elezioni primarie, era agli antipodi della politica reaganiana. Definiva la sua ricetta economica, fondata sul taglio delle tasse, come “economia vudù”. Tuttavia, dopo la vittoria delle primarie, dopo aver ventilato l’ipotesi di prendere Gerald Ford come suo vice, Reagan optò per Bush, all’ultimo minuto. Il ticket vinse. Contrariamente alle aspettative, l’ex rivale divenne il fedele luogotenente di Reagan, un po’ il suo contraltare “gentile”, ma sempre molto vicino all’inquilino della Casa Bianca, di cui divenne grande amico personale. In questo lungo periodo di luogotenenza, dal 1981 al 1988, fu Reagan a governare e a dare un volto conservatore al Partito Repubblicano.
Quando Bush si presentò come successore di Reagan nel 1988, i conservatori lo guardarono con scetticismo. I dubbi riguardavano suo padre (Prescott, banchiere e senatore), che era stato un finanziatore di Planned Parenthood, oltre che il suo passato di nixoniano, dunque un pragmatico, incline a compromessi con i progressisti e con i nemici esterni dell’America. Per farsi accettare, Bush recitò in un ruolo che non era suo, quello del conservatore texano che pronunciò la celebre promessa “Leggete il labiale: mai più tasse!”.
A trent’anni esatti da quelle elezioni e il giorno dopo la sua morte, i dubbi dei conservatori persistono, mentre l’entusiasmo universale dei progressisti è apparentemente inspiegabile. Bill Clinton, che lo sfidò e sconfisse nel 1992, ieri dichiarava che “pochi americani sono in grado di eguagliare” la statura del suo ex avversario. “Mentre i nostri cuori sono tristi, oggi, sono anche pieni di gratitudine”: non l’ha detto Trump (il cui discorso è stato francamente freddino), ma il democratico Barack Obama. “Ho molti ricordi di quell’uomo. Abbiamo avuto l’opportunità di lavorare assieme durante quell’era di grandi cambiamenti, un periodo drammatico che richiedeva a ciascuno di essere incredibilmente responsabile”, sono le parole, non di un ex alleato della Nato, ma di Michail Gorbachev, ultimo presidente di un'Unione Sovietica collassata proprio nell’era Bush, alla fine della Guerra Fredda. “Il vecchio Bush, senza ombra di dubbio, era un grande amico del popolo cinese”, titolava ieri il Global Times, quotidiano comunista cinese. Apparentemente strano anche questo, considerando che sotto gli occhi di Bush l’esercito cinese compì il massacro di piazza Tienanmen, a cui gli Usa risposero con sanzioni militari.
In realtà, a ben vedere, questi elogi sono ben comprensibili se si ripassa la storia di quegli anni. Dopo che Ronald Reagan aveva posto tutte le basi per la fine della Guerra Fredda e per il collasso pacifico del blocco orientale, Bush non fece che raccogliere i frutti di quella politica. Ma fece tutto quel che poté per rallentare il collasso dell’Unione Sovietica, con cui voleva collaborare. La sua idea era quella (tutt’altro che conservatrice) di un “nuovo ordine mondiale” fondato sulle due superpotenze, Usa e Urss, nel ruolo di polizia del mondo, contro i terroristi, gli Stati canaglia e i grandi pericoli transnazionali, come il narcotraffico. Vide con sfavore l’ascesa del presidente russo Boris Eltsin, fece il minimo indispensabile per aiutare i popoli dei Paesi Baltici che si stavano ribellando a Gorbachev, fino all’ultimo suggerì alle repubbliche sovietiche di stare sotto Mosca, come fece nel suo celebre discorso a Kiev, alla vigilia della dissoluzione dell’impero rosso. Gorbachev gli è grato ancora oggi. I dissidenti sovietici di allora, al contrario, non lo ricordano con altrettanto entusiasmo, come traspare dalle parole di sarcastica ira scritte su di lui da Vladimir Bukovskij. In base alla stessa logica, Bush rifiutò di occuparsi della dissoluzione della Jugoslavia, considerandola un “affare europeo”, mentre erano in corso i primi grandi massacri nella guerra in Croazia. Il Partito Comunista Cinese lo rimpiange e lo celebra perché fu soprattutto Bush a completare l’apertura degli Usa alla Cina, un processo storico iniziato con Nixon. Il massacro di Tienanmen, nel giugno del 1989, quasi non scalfì la decisione di Bush di fare di Pechino un partner di Washington. Applicò il minimo indispensabile di sanzioni, quelle sulle forniture militari, ma resistette alle richieste del Congresso di applicare misure più severe.
Fu sempre per la sua idea di inaugurare un “nuovo ordine mondiale” che diede inizio alla stagione degli interventi umanitari, a partire da Restore Hope in Somalia, poi finito con un sostanziale fallimento. Ma il suo intervento più celebrato resta quello per la liberazione del Kuwait dall’invasione irachena, prima con la costituzione di una grande coalizione internazionale a maggioranza araba, poi con la breve e vittoriosa Guerra del Golfo del gennaio-marzo 1991. Fu considerata come la più schiacciante vittoria statunitense dal 1945 e rivoluzionò in parte l’arte della guerra. Ma fu gravida di conseguenze che si trascinano tutt’oggi: segnò l’inizio della parabola di Bin Laden e di Al Qaeda, della jihad moderna, fu l’inizio della fine dei regimi laici mediorientali. Allora non si vide e non si previde nulla di tutto ciò. Pareva in compenso che si potesse arrivare alla fine del conflitto mediorientale: come Obama dopo di lui, Bush fece di tutto per favorire l’ascesa di un governo laburista israeliano (guidato da Yitzhak Rabin) che firmasse la pace con i palestinesi, disconoscendo sia il ruolo del likudista Shamir nella crisi del Golfo, sia la presa di posizione fortemente filo-Saddam di Arafat. Anche qui fu un successo illusorio: si ottenne, al massimo, una lunga tregua sfociata poi nell’omicidio di Rabin, nella crescita di Hamas e, nemmeno dieci anni dopo, nella più violenta Seconda Intifadah.
Per queste e altre scelte di politica internazionale, Bush è rimpianto da tutti quelli che oggi ricordano Reagan come un “falco” e vedono male la politica più isolazionista di Trump. Ma ci sono motivi molto più interni e contingenti che spiegano l’entusiasmo della sinistra progressista americana. Bush ha rifiutato di partecipare alle celebrazioni di Donald Trump, a partire dalla sua nomination. Nel 2013, ha fatto da testimone a una delle prime nozze gay negli Usa, dimostrando di tenere in ben poco conto i principi morali su cui si fonda anche il suo stesso partito. Nel corso del suo mandato incoraggiò sempre la concertazione con i Democratici. Come nel 1990, quando passò mesi a discutere con i congressisti dell’opposizione e con gli ecologisti prima di emettere il Clean Air Act, la prima legge di ispirazione ambientalista negli Usa. E nel giugno dello stesso anno la finanziaria più difficile della sua carriera fu elaborata dopo un compromesso con i Democratici e accettò di alzare la tasse. La sua promessa “leggete il labbiale: mai più tasse” divenne una plateale menzogna e il nocciolo duro conservatore dei Repubblicani, a partire dall’astro nascente Newt Gingrich, oltre il paladino della causa anti-tasse Grover Norquist (presidente della Americans for Tax Reform, la prima lobby anti-tasse) gli dichiarono guerra e gli fecero perdere le elezioni nel 1992. Specie perché il 1991, dopo la vittoria nel Golfo, fu caratterizzato dalla prima recessione economica in un decennio.