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IL GOLPE DEL PRESIDENTE

Burundi, torna l'incubo della guerra tra Tutsi e Hutu

Tutsi e Hutu di nuovo in guerra in Burundi dopo la decisione del presidente Hutu in carica, Pierre Nkurunziza, di candidarsi per un terzo mandato alle prossime elezioni generali di giugno. Migliaia di persone nella capitale Bujumbura sono scesi in piazza, le forze dell’ordine hanno sparato. Si contano già morti e feriti. 

Esteri 29_04_2015
Il presidente del Burundi Pierre Nkurunziza

Una nuova crisi tra antichi avversari, i Tutsi e gli Hutu, rischia di aprirsi in Burundi con la decisione del presidente Hutu in carica, Pierre Nkurunziza, di candidarsi per un terzo mandato alle prossime elezioni generali, in programma a giugno. Il 25 aprile il suo partito, il CNDD-FDD che è anche il partito di governo, ha convocato un congresso straordinario nel corso del quale ha annunciato ufficialmente di averlo scelto come candidato presidenziale. Appena la notizia si è diffusa, migliaia di persone nella capitale Bujumbura hanno risposto all’appello dell’opposizione di scendere in piazza e da allora sono in corso manifestazioni di protesta, duramente represse dalle forze dell’ordine che domenica e lunedì non si sono limitate a respingere i dimostranti con gas lacrimogeni e idranti, ma hanno sparato ad altezza d’uomo. Si contano già sei morti e numerosi feriti. 

Le proteste nascono dal fatto che il presidente Nkurunziza, in carica dal 2005, candidandosi viola la Costituzione perché ha già svolto due mandati e la Costituzione limita a due i mandati presidenziali che un cittadino può ricoprire. Ma non si tratta solo di questo. Nei dieci anni trascorsi Nkurunziza ha adottato comportamenti sempre più autoritari e inoltre ha favorito vistosamente la propria etnia, gli Hutu, e in particolare i sostenitori del proprio partito Hutu, il CNDD-FDD, a scapito delle altre componenti politiche e sociali del Paese. Si è attirato così il risentimento sia dei Tutsi, l’etnia minoritaria, che di parte degli stessi Hutu.  Per capire quanto tutto ciò sia pericoloso bisogna guardare alla recente storia del Burundi e del vicino Rwanda, abitato dalle stesse due etnie: avversarie nei secoli per il controllo delle risorse naturali – pascoli, sorgenti, terreni coltivabili… – e, dopo l’indipendenza, da quando è finita la colonizzazione europea, disposte a tutto per assicurarsi la risorsa ormai più preziosa: le istituzioni politiche che, in un sistema di corruzione e malgoverno sfrenati, consentono a chi le controlla di attingere alle ricchezze nazionali, sottraendole alle casse statali.  

In Rwanda lo scontro è degenerato in genocidio nel 1994 quando gli Hutu hanno deciso di risolvere una volta per sempre la questione, sterminando i Tutsi: dal 7 aprile di 21 anni e nei 100 giorni successivi sono state uccise da 800.000 a un milione di persone, Tutsi e anche molti Hutu contrari a questa soluzione finale. Poi però i Tutsi hanno ribaltato la situazione e hanno preso il potere. Da allora è iniziato un difficile processo di conciliazione tuttora in corso. Nel 1994 anche in Burundi si scatenava l’ultima di una serie di ondate di violenza etnica, destinata a durare fino al 2005, al costo di oltre 300.000 vittime. Dal 2000, tuttavia, è stata avviata una graduale operazione di pacificazione, consolidata da una minuziosa ripartizione delle cariche politiche e militari tra Hutu e Tutsi. Ma la vittoria elettorale del CNDD-FDD nel 2005 e la conseguente nomina di Pierre Nkurunziza a presidente ha compromesso le fragili conquiste degli anni precedenti. Le elezioni generali del 2010 sono state boicottate dall’opposizione giustamente convinta che sarebbero state troppo viziate da brogli e manipolazioni governativi per valere la pena di parteciparvi. Quindi la situazione è andata peggiorando. Quest’ultima mossa, prevista e temuta da mesi, la candidatura al terzo mandato violando la Costituzione, fa temere il peggio. 

Dopo la nomina da parte del suo partito, il presidente Nkurunziza ha dichiarato: «invito la popolazione ad andare al voto in pace. Ma sia chiaro per tutti: chiunque intenda creare dei problemi al partito di governo eletto dal popolo, finirà nei guai». Che parlasse sul serio lo confermano i primi morti, l’arresto il 27 aprile di Pierre-Claver Mbonimpa, esponente dell’opposizione, e la chiusura di Radio Publique Africaine, l’emittente privata più seguita in Burundi, colpevole di posizioni vicine all’opposizione, ora accusata di «complicità in un tentativo insurrezionale». Il vice presidente del CNDD-FDD, Joseph Ntakirutimana, il giorno dopo la sua chiusura l’ha addirittura paragonata a Radio Mille Colline, l’emittente che nel 1994 diffondeva messaggi di odio in Rwanda, istigando al genocidio. 

L’ex capo di stato Pierre Buyoya il 28 aprile ha ammonito che in Burundi potrebbe di nuovo scoppiare la guerra se la crisi non venisse risolta. Anche l’Unione Africana ha richiamato alle loro responsabilità autorità e popolazione e, a conferma della gravità della situazione, ha indetto una riunione del Consiglio di Pace e Sicurezza. Gli Stati Uniti hanno condannato l’irresponsabile iniziativa di Nkurunziza dicendo che il Burundi sta «perdendo un’occasione storica per rafforzare la propria democrazia». Il 28 aprile è arrivata anche la condanna delle Nazioni Unite. Il segretario generale Ban ki-moon ha chiesto un’indagine per accertare la responsabilità dei morti durante le manifestazioni e ha annunciato che invierà in Burundi un suo rappresentante per discutere della crisi con Nkurunziza. 

Proprio le Nazioni Unite nel 2014 hanno diffuso l’allarmante notizia che il governo stava distribuendo armi e divise militari ai membri dell’ala giovanile del CNDD-FDD. Corre voce insistente di pogrom contro i Tutsi attuati da giovani miliziani Hutu. Sono notizie da verificare. Ma tanto basta alla popolazione. Da mesi un flusso di profughi si dirige verso i Paesi vicini. Solo nelle ultime settimane oltre 12.000 persone sono fuggite in Tanzania e nella Repubblica Democratica del Congo. Non andranno ad aggiungersi a coloro che sulle sponde del Mediterraneo attendono di imbarcarsi alla volta dell’Europa. Come quasi tutti gli altri profughi africani – milioni di somali, centrafricani, sudanesi, nigeriani… – e come molti di loro stessi in passato, aspetteranno lì vicino a casa, ospitati da parenti, accolti nelle parrocchie, assistiti nei campi dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, che il pericolo passi, per tornare, riprendere la vita di sempre, ricominciando daccapo.