ISLAM E OCCIDENTE
Burqa vietato messaggio per la Bindi
Dal voto favorevole al disegno di legge che proibisce il burqa, esce sconfitto il cattolicesimo democratico più che il fondamentalismo islamico.
Attualità
04_08_2011
Dal voto favorevole, espresso il 2 agosto dalla Commissione Affari Costituzionali della Camera, al disegno di legge che proibisce il burqa, esce sconfitto più il cattolicesimo democratico che il fondamentalismo islamico.
Vale la pena di ripercorrere il dibattito che sul tema si svolge da qualche anno, se non altro allo scopo di ricostruire la genesi di un provvedimento che rischierebbe seriamente di essere tacciato di islamofobia, se la relatrice non fosse invero Souad Sbai, una parlamentare del PdL di origini arabe, che da anni combatte, assieme a tante altre, nei tribunali per la difesa delle donne. È lei stessa a spiegare chi l’ha ostacolata, commentando la vittoria che, nell’attesa di un’approvazione da parte dell’aula di Montecitorio, «dovrebbe far riflettere qualcuno sulla sua posizione falsamente multiculturale e sulla sua insostenibile concezione dei diritti di libertà, dalla quale, ringraziando il cielo, non abbiamo mai avuto nulla da imparare».
Non si fatica a identificare fra tutti, simbolicamente, Rosy Bindi la quale, ai tempi in cui era ministro della Famiglia, il 10 ottobre 2007, arrivava a sostenere sul Corriere della Sera che il burqa «non è una forma di oppressione», ma «un simbolo culturale». E pensare che perfino l’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche in Italia, attraverso il suo portavoce ufficiale dell’epoca, Izzedine Elzir, l’aveva corretta spiegandole che il viso della donna può rimanere scoperto «per la maggior parte dei sapienti». La futura presidentessa del Partito Democratico non rientrava nella cerchia di questi ultimi perché più oltre sentenziava: «Se indossare il burqa è una libera scelta, prima di proibirlo con argomenti pretestuosi credo che dovremmo riflettere». A quasi quattro anni di distanza, è riuscita a condurre sulla sponda del progressismo cattocomunista anche Roberto Hamza Piccardo, nuovo portavoce dell’Ucoii, che gioca a dirottare il dibattito con le parole: «Vietare il velo islamico per legge è un'ingiustizia che tocca le libertà individuali».
In realtà, il cosiddetto “velo” – inteso come hijab, che lascia scoperto il volto, o chador, più simile a un mantello che si chiude sotto il mento – non è stato minimamente preso in considerazione dal testo di modifica dell’articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, che vieta l'uso di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. Sono stati presi in esame soltanto il niqab, che lascia scoperti soltanto gli occhi e il burqa, che copre tutto il corpo compresi gli occhi, seguendo le linee proposte dal Comitato per l’Islam Italiano che il 14 luglio del 2010 aveva infatti suggerito di «deconfessionalizzare» la materia, evitando ogni specifico riferimento, nelle leggi, all’islam e a questioni che attengano al velo o alla condizione della donna musulmana, ribadendo tuttavia che la riconoscibilità delle persone deve essere garantita.
Quello del burqa e del niqab non è un obbligo religioso che derivi dal Corano, né è riconosciuto come tale dalla grande maggioranza delle scuole giuridiche islamiche. Sarà forse gradito a Rosy Bindi, ma per ragioni che certamente esulano dai diritti di libertà religiosa.