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BILANCI

Buon Anno. Ma cosa possiamo sperare?

Dio è il bene finale a cui tendere
e l'amico su cui fare affidamento.
Ci restano la fede e la Sua giustizia

Cultura 29_12_2010
speranza

In questi giorni ci auguriamo tutti, per noi stessi e reciprocamente, un Buon Anno. Ma come possiamo sperarlo vedendo il male che dilaga nel mondo, le famiglie che si sfasciano, le potenze mondane che ghermiscono la terra, le catastrofi, le malattie inguaribili, la malvagità persino verso i bambini? E, anzitutto, che cos’è la speranza?

Preliminarmente possiamo dire che essa è l’aspettativa fiduciosa di un bene che ci trattiene dal demordere e che ci infonde slancio: «La speranza – dice Nietzsche – è l’arcobaleno sullo scosceso e impetuoso torrente della vita, che cento volte viene inghiottito dagli spruzzi, ma che pur sempre di nuovo si ricompone». Essa ci consente di sopportare anche sofferenze atroci, come testimonia Viktor Frankl, psicologo e psicoterapeuta ebreo, che nei lager verificò che, a volte, i forti soccombevano ed i gracili sopravvivevano se e quando la vita per questi ultimi (a differenza dei primi) aveva un senso forte, uno scopo importante per cui valeva la pena soffrire e che essi speravano di poter conseguire. Così, se Nietzsche scriveva che «una volta che si possegga il proprio “perché” della vita, ci si riconcilia quasi con ogni “come”», cioè con ogni accadimento, Frankl poté togliere il «quasi» di Nietzsche.

Ora, a buon diritto uno dei più grandi filosofi di sempre come Immanuel Kant scriveva che la domanda «che cosa posso sperare?» è una delle più decisive e fondamentali. Dunque che cosa possiamo sperare? Nel corso della nostra vita coltiviamo tante speranze: alcune non trovano soddisfazione, altre si compiono; ma il traguardo raggiunto non ci rende mai definitivamente felici: «L'uomo – dice Benedetto XVI nella Spe salvi – ha, nel succedersi dei giorni, molte speranze – più piccole o più grandi – diverse nei diversi periodi della sua vita. A volte può sembrare che una di queste speranze lo soddisfi totalmente e che non abbia bisogno di altre speranze. Nella gioventù può essere la speranza del grande e appagante amore; la speranza di una certa posizione nella professione, dell'uno o dell'altro successo determinante per il resto della vita. Quando, però, queste speranze si realizzano, appare con chiarezza che ciò non era, in realtà, il tutto. […] Si rende evidente che può bastargli solo qualcosa di infinito, qualcosa che sarà sempre più di ciò che egli possa mai raggiungere».

Ora, le ideologie moderne, per esempio il marxismo e lo scientismo, hanno presuntuosamente preteso e promesso di rendere perfetto il mondo, hanno promesso di raggiungere ciò che l’uomo non può guadagnare con le sue sole forze: le ideologie hanno prodotto cataste immense di cadaveri; la scienza ha invero conseguito grandi e meritori progressi migliorando il nostro confort, ma a volte ha anche moltiplicato l’ingiustizia, per esempio producendo armi sempre più micidiali, oppure violando massivamente la dignità umana (manipolazioni genetiche, produzione di ibridi, fecondazione artificiale, ecc.).

Sovviene allora la riflessione di Tommaso d’Aquino: la speranza fa tendere a Dio come bene finale da raggiungere e come amico su cui fare affidamento. Torniamo allora alla Spe salvi: possiamo avere speranza perché «Non sono gli elementi del cosmo, le leggi della materia che in definitiva governano il mondo e l’uomo, ma un Dio personale», che è venuto ad abitare in mezzo a noi. Egli non ha debellato il male dal mondo: come ha detto il Papa nella notte di Natale, «“il bastone dell’aguzzino” non è stato spezzato. Anche oggi marciano rimbombanti i calzari dei soldati e sempre ancora e sempre di nuovo c’è il “mantello intriso di sangue” (Is 9,3)».

Sappiamo però – dice di nuovo l’enciclica – che ci sarà un banchetto eterno, e che «i malvagi alla fine, nel banchetto eterno, non siederanno indistintamente a tavola accanto alle vittime, come se nulla fosse stato». E, in attesa di questo esito ultramondano, da 2000 anni – citiamo di nuovo dall’omelia di Natale del Papa – il bambino di Betlemme «ha [già] veramente eretto isole di pace», vere oasi tra le ingiustizie del mondo, ed «ha dato loro [agli uomini] la forza di resistere alla tirannia del potere», dell’ingiustizia, della cattiveria e della malattia.

Il martire vietnamita Paolo Le-Bao-Thin racconta che nel suo carcere «ai crudeli supplizi di ogni genere, come i ceppi, le catene di ferro, le funi, si aggiungono odio, vendette, calunnie, parole oscene, false accuse, cattiverie, giuramenti iniqui, maledizioni e infine angoscia e tristezza». Eppure giunge a dire: «Dio, che liberò i tre giovani dalla fornace ardente, mi è sempre vicino; e ha liberato anche me da queste tribolazioni, [non già con la mia scarcerazione ma] trasformandole in dolcezza […]. In mezzo a questi tormenti, che di solito piegano e spezzano gli altri, per la grazia di Dio sono pieno di gioia e letizia» (Spe salvi, 38). Se viviamo nella fede e nella giustizia di Dio possiamo sperare, anzi sappiamo con assoluta certezza, che giungeremo alla comunione ultramondana con lui e che riusciremo ad affrontare ogni patimento presente.