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INDIA

Brutte nuove per i nostri Marò

Il dossier preparato dalla polizia anticrimine indiana, nonostante le prove contrarie, cercherebbe di dimostrare come i Marò abbiano sparato senza preavviso. Cosa che può comportare la pena di morte.

Esteri 07_12_2013
Polizia anticrimine indiana

La polizia anticrimine organizzato indiana (Nia) non ha ancora presentato i risultati dell’indagine sui fucilieri di Marina italiani Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, ma i capi d’accusa che si stanno configurando in vista del processo ai due militari non sembrano certo incoraggianti sia sul piano dei tempi che delle accuse. Ieri il giudice Dharmesh Sharma ha rinviato l’udienza all’8 gennaio 2014 dopo aver ascoltato le parti ma in assenza dei due imputati. Dopo oltre sette mesi di attesa per le indagini, che la Corte Suprema indiana aveva affidato a un tribunale speciale con la disposizione che dovessero essere “rapide”, il caso giudiziario che coinvolge i marò per la morte di due pescatori indiani il 15 febbraio 2012 sembra andare ancora un volta per le lunghe.

Sharma, titolare dell'aula 25 della Session Court, che in passato si è occupato anche di processi per terrorismo, è stato designato per gestire il caso dall'Alta Corte dopo che in precedenza l'incarico era stato dato ad un magistrato metropolitano di livello inferiore, il giudice Amit Bansal. La prevista conclusione delle indagini e la presentazione del rapporto contenente i capi di accusa sembra quindi slittare ulteriormente e, come avevano anticipato alcune fonti all'ANSA a New Delhi, l'udienza di ieri è servita “essenzialmente a comunicare ai marò che ora il caso è nelle mani del magistrato”.

Secondo un responsabile della polizia il dossier della Nia consta di circa mille pagine ma non è ancora chiaro se gli inquirenti abbiano deciso di accusare i due militari italiani in base alla legge indiana per la repressione della pirateria in mare (Sua Act), che implica la possibilità di applicare la pena di morte (come era stato annunciato nei giorni scorsi dai media) o se, forse anche dietro pressioni politiche si è trovata una soluzione alternativa.

A questo proposito il 4 dicembre, Michele Valensise, segretario generale della Farnesina, ha convocato l’ambasciatore di India in Italia portando alla sua attenzione l’ordine del giorno approvato lo stesso giorno all’unanimità dalla Camera dei Deputati e sostenuto dal governo per assicurare una idonea e sollecita soluzione del caso Latorre-Girone. Nel colloquio Valensise ha espresso la forte aspettativa italiana che il procedimento in corso in India possa ormai concludersi sollecitamente e con esito quanto più favorevole ai nostri due militari.

A complicare la situazione e le prospettive processuali si aggiungono le notizie rivelate da una fonte del Ministero degli interni indiano al quotidiano Hindustan Times secondo la quale la National Investigation Agency ritiene che i marò a bordo della Enrica Lexie non abbiano utilizzato altoparlanti per lanciare avvertimenti né sparato colpi in aria prima di uccidere due pescatori indiani a bordo del peschereccio St. Anthony. Di fatto Latorre e Girone potrebbero venire accusati di aver ucciso deliberatamente e senza nessun preavviso i pescatori Ajesh Binki e Jelestine. Secondo la fonte anonima «c'erano undici pescatori sulla St. Antony quando i fucilieri di Marina italiani hanno sparato. Solo due di essi sono stati colpiti mentre erano ai comandi del peschereccio e i rimanenti nove dormivano al momento in cui è avvenuto l'incidente».

La fonte ha concluso che a suo avviso i due sono stati uccisi in una sorta di tiro al bersaglio, colpiti uno in fronte e l'altro al cuore, colpi che si sono rivelati istantaneamente letali. Una conclusione che giustificherebbe il richiamo alle pena di morte in base all'articolo 3 del Sua Act che recita: «chi causa la morte di una qualsiasi persona sarà punito con la morte», ma che al tempo stesso dimostrerebbe la parzialità degli investigatori indiani.

La Nia avrebbe quindi attribuito piena credibilità alla testimonianza dei pescatori sopravvissuti del St. Antony senza chiedersi quale attendibilità possano avere le loro dichiarazioni considerato che loro stessi ammettono che dormivano e tenuto conto che all’epoca fornirono due versioni divergenti. Inizialmente dissero alla polizia del Kerala di non essersi accorti di nulla a causa del sonno e di non aver riconosciuto l’imbarcazione da dove proveniva il fuoco. Solo dopo l’arrivo in porto e il fermo della nave italiana “ricordarono” di aver visto chiaramente la scritta Enrica Lexie da dove erano stati investiti da “una pioggia di proiettili”.

Al tempo stesso per gli investigatori non sembra avere alcun credito il rapporto di Latorre e Girone e degli altri 4 marò che insieme al comandante e vicecomandante della Enrica Lexie confermarono la piena applicazione delle regole d’ingaggio previste per far allontanare l’imbarcazione escludendo che siano stati sparati proiettili contro il peschereccio. «Ho immediatamente fatto suonare la sirena antinebbia» ha dichiarato il capitano Umberto Vitelli ricostruendo l’accaduto smentito però da un marinaio indiano della sua nave, Kantamachu Thirumala Reo, per il quale «non sono stati suonati segnali d'allarme sonoro».

Il vice comandante Carlo Noviello si disse invece sicurissimo «che l’imbarcazione che ho visto dal ponte della nave non era il St. Antony» rinnovando così l’ipotesi che quanto accaduto sul peschereccio non abbia alcuna attinenza con la vicenda della nave italiana e che i pescatori indiani sarebbero stati uccisi da motovedette dello Sri Lanka dopo aver sconfinato in quelle acque per pescare tonni. Ipotesi suffragata anche dalla perizia dell’anatomopatologo professor Sasikala che trovò nei cadaveri proiettili calibro 7,62 russo, munizione non in dotazione ai fucilieri italiani ma bensì alle Arrow Boat della guardia costiera cingalese. La perizia indiana venne poi “corretta” cambiando il calibro con il 5,56 in uso ai fucili italiani sequestrati dalla polizia del Kerala a bordo della Lexie mentre il professor Sasikala non fu più avvicinabile dai media.