Bosnia-Erzegovina, i cattolici sotto tiro
Gli accordi di pace hanno agevolato solo la maggioranza musulmana. Per i cristiani continue provocazioni, furti e profanazione dei cimiteri.
Nel 2006, il cardinale Vinko Puljic, arcivescovo di Vrhbosna, Sarajevo, intervistato da Radici Cristiane, affermava che “I cattolici sono potuti rientrare nella Federazione grazie ai nostri sacerdoti che sono tornati qui per primi e hanno iniziato la ricostruzione. Rimane purtroppo il problema di come far valere i propri diritti, problema che è presente nelle grandi città dove vivevano in maggioranza i musulmani. Ed è proprio qui che i cattolici ottengono con molta difficoltà i permessi per la costruzione delle case, non riescono a trovare lavoro e viene messa a rischio la loro sicurezza”. Il Cardinale sottolineava le provocazioni che i cattolici subiscono: “sistematicamente - diceva - rubano negli appartamenti della parrocchia e della chiesa, mentre la polizia sta a guardare senza intervenire, tanto da creare paura tra la gente, come a voler dire ‘qui non c’è posto per voi’. A Sarajevo hanno distrutto anche le nostre tombe, sono entrati nelle case private, e per quanto noi sappiamo chi è stato, la polizia non reagisce. La Comunità internazionale non ritiene importante proteggere un popolo di minoranza”.
Il cardinale ricordava che solo nell’arcidiocesi di Sarajevo, prima della guerra, vivevano 528.000 cattolici, “mentre oggi ce ne sono appena 218.000 ed inoltre sono state distrutte 600 chiese. Con rammarico devo ammettere che noi non abbiamo ottenuto nessun permesso per poter iniziare i lavori di ristrutturazione. Sono particolarmente dispiaciuto del fatto che quando si dovevano aiutare i nostri sacerdoti a tornare nelle case parrocchiali distrutte dalla guerra, le organizzazioni internazionali si sono rifiutate di aiutarci, non mostrando neanche un po’ di buona volontà per risolvere questo problema. È triste venir considerati del cittadini di serie B e venir discriminati”.
Dal 1992 al 1995, dopo la frantumazione della Jugoslavia, la guerra ha devastato la Bosnia Erzegovina causando quasi 243.000 morti e circa due milioni di rifugiati. Tra di loro, alto è stato il numero di sacerdoti e religiosi. Molti furono rapiti e brutalmente torturati e nonostante tutto sopravvissero, altri furono assassinati. Di alcuni non si è avuta più notizia.
Monsignor Komarica, vescovo di Banja Luka, denuncia da anni che “il Paese è diventato una casa di riposo per anziani, in cui solo pochi cattolici sono tornati mentre la maggior parte di coloro che erano rimasti sono ormai anziani. In realtà molti sono già morti così che attualmente in Bosnia ci sono meno cattolici di quanti ce ne fossero immediatamente dopo la fine della guerra”. Egli sostiene che appena il 2% del totale degli aiuti dati è giunto ai cattolici croati. “I rifugiati non hanno più case e quando ritornano spesso sono costretti a vivere senza acqua ed elettricità. Non trovano lavoro ed hanno la netta sensazione di non essere accettati nella società”, ha denunciato il Vescovo all’Istituto di diritto pontificio Aiuto alla Chiesa che soffre. “Tuttora – ha aggiunto – a distanza di 15 anni dalla fine della guerra, ai cattolici non è permesso far ritorno nelle proprie case. Si tratta di un crimine, della negazione di uno dei diritti fondamentali dell’uomo: il diritto alla patria. Durante la guerra, nella sola diocesi di Banja Luka, oltre 70mila i cattolici sono stati cacciati dai villaggi e, ad oggi, solo in 5.800 si stima abbiano potuto farvi ritorno. Una possibilità che non è stata invece negata a più di 250mila musulmani che già da tempo hanno ripreso possesso delle proprie abitazioni. Un’ulteriore prova di come oggi la pulizia etnica sia un’ingiustizia di fatto tollerata”.
Questa situazione è stata confermata a Aiuto alla Chiesa che soffre anche da Valentin Inzko, dal 2009 rappresentante speciale dell’Unione Europea per la Bosnia Erzegovina. Il diplomatico austriaco ha raccontato ad ACS “quanto sia difficile per i cattolici trovare un lavoro e quanto essi si sentano svantaggiati e discriminati dalle autorità”.
Per monsignor Ivo Tomasevic, segretario generale della Conferenza episcopale bosniaca, intervistato dall’agenzia Cns, “La pace in Bosnia potrebbe essere nuovamente a rischio a causa dell’incapacità della comunità internazionale di “assicurare giustizia e diritti umani per tutti”. Secondo il presule, gli accordi firmati a Dayton 1995 dopo tre anni di guerra, non sono riusciti a portare “una pace stabile e duratura” nel Paese, perché concepiti dalla comunità internazionale e non dal popolo bosniaco. Ad essere penalizzata è stata soprattutto la comunità cattolica, le cui condizioni sono peggiorate: solo il 3% dei 200mila cattolici fuggiti dall’attuale Repubblica Serba di Bosnia, hanno fatto rientro nelle proprie case, mentre le 40 parrocchie presenti nella capitale Sarajevo sono rimaste spopolate. “L’accordo di pace - ha detto mons. Tomasevic - ha fermato i combattimenti, ma solo perché è sceso a compromessi con l’ingiustizia e ha legalizzato la pulizia etnica delle fazioni più forti. La gente ancora non si sente sicura, perché sa di vivere in uno Stato in cui i crimini di guerra sono stati premiati, invece di essere contrastati e condannati”.
Per il vescovo le modifiche portate nel 2001 agli accordi hanno contribuito solo a peggiorare la situazione dei cattolici a vantaggio della maggioranza musulmana che detiene le vere leve del potere in Bosnia e ha tutto l’interesse a conservare lo status quo. “L’assenza di soluzioni - ha affermato - rischia di radicalizzare gli animi”. Dagli 820mila censiti nei primi anni ’90, oggi essi sono ridotti a circa 400mila, pari al 9% della popolazione, più della metà della quale è musulmana e il 37% è serbo-ortodossa.