Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santo Stefano a cura di Ermes Dovico
COMMERCIO DI ARMI

Bombe italiane in Yemen? Un falso scoop

Sono paradossali le accuse del New York Times all'Italia per le bombe costruite in Sardegna e vendute all'Arabia Saudita. Non solo sono cose note e legali, ma l'Italia è solo il sesto fornitore saudita: la maggior parte delle bombe sono americane, britanniche e francesi.

Politica 31_12_2017

C’è molto di paradossale nello scoop del New York Times che rilancia le accuse all’Italia di essere responsabile dei morti tra i civili che nel conflitto yemenita vengono colpiti dai raid aerei sauditi a causa dei contratti per migliaia di bombe aeronautiche fornite a Riad dalla società RWM che ha lo stabilimento a Domusnovas, nel Sulcis.

Uno stabilimento in espansione proprio grazie alla commessa saudita in cui il colosso tedesco Rheinmetall (proprietaria di RWM) sta investendo 40 milioni di euro e potrebbe quasi raddoppiare i 500 posti di lavoro garantiti finora in una regione da sempre depressa.

Paradossale non perché non sia vero che le bombe made in Italy colpiscono obiettivi anche civili nello Yemen, ma questo accade in tutte le guerre, anche in quelle combattute dal cielo dalla Nato e dall’Italia: basti pensare alla Serbia, all’Iraq, all’Afghanistan o alla Libia. Affermare che i sauditi attaccano volutamente obiettivi civili è difficile perché, come in tutte le guerre, i miliziani si barricano nei pressi di scuole, ospedali e abitazioni per scoraggiare il fuoco nemico.

Non a caso la Farnesina (che attribuisce le licenze alle industrie per l’export militare) ha sempre definito legittima la vendita poiché Riad non è sottoposta a sanzioni o embarghi sulle forniture militari dall’Onu o dalla Ue. Anzi, Riad è il secondo importatore mondiale di armi dopo l’India.

Ciò detto è inevitabile riflettere sull’alleanza con Riad, sulla nostra collocazione (come Italia ed Europa) al fianco dei sunniti e in opposizione al blocco sciita guidato dall’Iran o sugli ambigui rapporti che legano i sauditi con l’estremismo islamico e con la rivolta jihadista in Siria: questa rivalutazione strategica però dovrebbe riguardare l’intero Occidente e sarebbe necessariamente politica, non può essere praticata per ragioni di opportunità elettorale sulle spalle di una azienda e dei suoi lavoratori.

Anche perché la fandonia che tra le righe il Nyt cerca di far passare (a proposito di propaganda e fake news) è che i sauditi usano per lo più bombe italiane per ammazzare i civili yemeniti. In realtà l’export italiano verso Riad non raggiunge il mezzo miliardo di dollari annui mentre gli Usa, tra Obama e Trump, hanno firmato contratti per 225 miliardi che potrebbe salire nei prossimi anni fino a 500.
Molto più attivi di noi italiani a fornire armi ai sauditi vi sono anche britannici e francesi (l’Italia è il sesto fornitore di Riad) ma evidentemente al Nyt interessano solo le bombe italiane invece di guardare al gigantesco business americano.

Alcune bombe saudite sono “made in Italy” ma tutti i velivoli da guerra e i missili sauditi sono stati venduti da Usa, Gran Bretagna e Francia, paesi dove il dibattito in proposito non è mancato ma senza forzature giornalistiche. Per di più da parte di testate straniere anche se all’inchiesta del Nyt hanno contribuito il senatore Roberto Cotti (M5S) e l’onorevole Mauro Pili (Unidos). Forse interessati a conquistare un po’ di voti pacifisti in fuga dal PD.

Per comprendere gli obiettivi del giornale statunitense è inevitabile riflettere sul fatto che un lacerante dibattito elettorale che si sviluppi in Italia con sullo sfondo le immagini dei bambini yemeniti uccisi (così dicono) dalle bombe prodotte in Sardegna potrebbe indurre a chiudere il contratto con Riad (ne ha accennato velatamente il viceministro degli Esteri, Mario Giro) compromettendo così la credibilità dell’Italia nel ricco mercato del Golfo dove il nostro export (anche militare) va alla grande negli emirati della penisola Arabica.

Sulle due sponde dell’Atlantico sarebbero quindi in molti a brindare al nuovo anno festeggiando l’uscita dell’Italia e delle sue aziende dal ricco mercato del Golfo.