POLITICA E TV
Bin Laden, l'immagine che (non) manca
La vicenda delle polemiche sulle immagine relative al caso Bin Laden, deve far riflettere sul rapporto tra realtà e sua rappresentazione.
Attualità
09_05_2011
È ancora viva l’emozione globale suscitata dall’annunciata uccisione di Osama Bin Laden, ricercato mondiale numero uno, “giustiziato” dai soldati delle forze speciali Usa una settimana fa nel suo rifugio ad Abbottabad, in Pakistan. Lo è perché si tratta di un evento che segna una nuova era dopo quella seguita all’attentato alle Torri Gemelle. E anche perché il flusso mediatico generato dalla notizia riserva ogni giorno nuovi particolari e nuovi sviluppi.
Oltre alle ripercussioni politiche, alle nuove strategie nella lotta al terrorismo internazionale, alle reazioni dei Paesi del mondo intero, continua a essere al centro dell’attenzione la questione delle fotografie che mostrerebbero il cadavere di Bin Ladan, da esibire come trofeo e come prova della sua avvenuta uccisione. A caldo, la notizia della sua morte è stata accompagnata dalla circolazione immediata in internet di immagini che ritraevano il suo volto sanguinante e tumefatto, rivelatesi ben presto false. Lo stesso è accaduto per le fasi salienti del blitz, che – in mancanza di immagini in presa diretta – è stato ricostruito attraverso l’infografica.
In mancanza di meglio, è stata connotata come prova effettiva dell’uccisione di Bin Laden la foto ormai celeberrima della “Situation Room”, che ritrae il presidente Obama insieme a tutto lo Stato maggiore Usa, nell’atto di osservare su uno schermo fuori quadro l’azione in diretta delle forze speciali. Questa immagine, certamente evocativa, ha conquistato le prime pagine di quasi tutti i quotidiani su carta e online, rimbalzando nei telegiornali e nei vari spazi di approfondimento informativo dedicati all’evento.
Una sorta di icona del momento è così diventata visione collettiva, prova globale che sì, effettivamente, le cose sono andate come sono state raccontate nelle versioni ufficiali. Ma, passata la necessità del momento di dare un ancoraggio visivo a un fatto tanto importante, ci si rende facilmente conto di quanto costruita e falsa sia quell’immagine.
Ciascuno dei protagonisti sembra in una posa studiata, come se il fotografo avesse suggerito ogni singolo atteggiamento e ogni singolo gesto da fissare con l’obiettivo. Non si può sapere, peraltro, cosa effettivamente stessero guardando Osama e i suoi collaboratori, né quale precisa immagine abbia determinato la reazione (inorridita?) di Hillary Clinton nel portarsi la mano alla bocca. Ed è impensabile che chi ha scattato la foto non abbia chiesto ai soggetti presenti di adeguarsi alle necessità visive della fotocamera, lasciando quindi a ciascuno il tempo per mettersi in posa.
Tutto questo restituisce alla foto un’aura di artificiosità che porta lontano rispetto alla sua presunta referenzialità nel rendere conto dell’accaduto agli occhi del mondo. È quella stessa artificiosità che ha visto il proliferare in rete dell’immagine ritoccata in più versioni; lo sbizzarrirsi del popolo web nell’alterare il quadro e gli atteggiamenti dei protagonisti è il segno di una scarsa fiducia nell’autenticità dell’immagine originale.
D’altra parte, il pubblico è abituato a surrogati visivi utilizzati – paradossalmente – per certificare dati di realtà attraverso la messa in scena. Per esempio, quando fu abbattuto il regime di Saddam Hussein e le forze alleate conquistarono Baghdad, l’icona della caduta del dittatore iracheno fu l’immagine dei soldati che, aiutati dal popolo, facevano schiantare a terra la sua statua. Soltanto dopo molto tempo, quando Saddam fu catturato per essere processato e ucciso, si vide il volto dell’uomo, con la barba incolta, gli occhi smarriti e l’aria stanca. E qualcuno disse pure che, a guardarlo così, non sembrava nemmeno quel feroce e sanguinario despota descritto da chi per mesi e mesi gli aveva dato la caccia…
La stessa sensazione si è avuta di fronte alle immagini di Bin Laden avvolto in una coperta e intento a guardare la tv come un qualsiasi anziano. Di fronte al rambismo mediatico americano, questa immagine suona come una risposta di profilo volutamente basso, che dà del terrorista internazionale un’immagine ben diversa da quella del fiero capopopolo capace di scatenare l’inferno con i suoi proclami incendiari.
Probabilmente non vedremo mai il volto di Bin Laden ucciso, se non quando l’onda emotiva sarà drasticamente calata e consentirà di esaminare i fatti a mente (più) fredda. La curiosità dei nostri occhi si dovrà “accontentare” delle immagini dei morti collaterali e dell’autorevole testimonianza del presidente Obama: “Ho visto le fotografie, non c’era dubbio che fosse lui”. Ci sono anche immagini che non avremmo voluto vedere, come le feste e i trionfi per quello che è comunque un assassinio, anche se a cadere sotto i colpi dei tiratori scelti è stato il più “cattivo” terrorista in circolazione negli ultimi lustri.
La degenerazione di alcuni meccanismi informativi nella società dell’immagine ha fatto sì che per tutti noi sia vero soltanto quello che si può mostrare, all’insegna del “Se non vedo, non credo” di tommasiana memoria. I media – e gli strateghi della comunicazione governativa – agiscono di conseguenza.
Con le attuali tecnologie e sotto le più diverse spinte strategiche, l’immagine fotografica è quanto di più manipolabile i media abbiano a disposizione nella costruzione dell’informazione. Per questo, nonostante la spettacolarità intrinseca che la caratterizza, una fotografia non può essere presa come unica prova di un fatto, se non è accompagnata dal dovuto corredo di parole capaci di spiegare quanto è accaduto.