Bimbi partoriti a contratto: il mercato delle madri indiane
Curare un famigliare, avere una casa, assicurare un futuro ai propri figli: questi i motivi che le donne in IndiA ad affittare il loro corpo sono spesso delle buone motivazioni. I costi in India sono inferiori e ciò spiega come mai l’India in breve tempo sia diventata una meta mondiale del “turismo procreativo”.
C’è chi preferisce chiamarlo “maternità surrogata”, “maternità assistita”, “gestazione per altri”. A molti non piace affatto l’espressione “utero in affitto” che invece descrive con esattezza di che cosa si tratta quando si propone a una donna di avere un figlio per conto di qualcuno in cambio di un compenso: un contratto – e sì, proprio un contratto d’affitto di un utero – il cui oggetto è la generazione e la compravendita di un bambino.
L’utero in affitto, per chi lo disapprova, equivale a una forma moderna di schiavitù. In realtà, prima e dopo la gravidanza, le donne che producono bambini sono libere e lo sono al momento di stipulare il contratto. In effetti, lo sono anche nei mesi della gestazione: verosimilmente libere di scindere il contratto, ad esempio. Anche parlare di sfruttamento può essere discutibile, almeno nel senso marxiano del termine: se non altro perché, trattandosi di un bambino e di un desiderio (avere un figlio, essere genitori), è difficile calcolare il valore di quello che una donna produce affittando il proprio utero e quindi decidere se riceve un compenso adeguato oppure viene sfruttata.
Il danno inflitto da chi assume una “madre surrogata” può non essere dunque lo sfruttamento, l’imposizione di una forma di schiavitù. Ma allora è istigazione a servirsi delle proprie facoltà procreative senza tener conto che c’è di mezzo un bambino detentore di diritti e dignità come tutte le persone umane. La “madre surrogata”, da parte sua, è responsabile di cedere alla tentazione, di lasciarsi corrompere, in nome di qualcosa o di qualcuno a cui da valore più che al bambino che porterà in grembo. La colpa collettiva è rendere tutto questo fattibile, accettare che diventi normale, legittimo, ammettere che delle persone siano considerate oggetto da acquistare, opportunità di guadagno. L’effetto è devastante. Lo dimostrano le interviste alle “madri surrogate”: non una parola né si direbbe un pensiero per i bambini che accettano di far nascere, in che mani andranno, come verranno trattati, se e come vivranno la loro condizione, tanto più nel caso che le persone che li hanno commissionati non siano i loro genitori biologici. Forse nessuno glielo chiede, forse non ci pensano.
Il Vansh Surrogacy, un centro di “procreazione assistita” con sede a New Delhi, India, ha una pagina Facebook. Un post del 2015 rimanda a un articolo pubblicato su “Indiatoday” lo scorso 3 luglio in cui tra l’altro si descrivono le motivazioni che spingono le donne indiane ad affittare il loro corpo. Una “madre per altri”, Geeta, dice di farlo perché suo marito è ammalato e necessita di cure costose che il sistema sanitario non fornisce gratuitamente. Neelu, che ha 23 anni, vuole costruirsi una casa: «per anni», spiega, «mio marito ed io abbiamo tentato, ma non ci siamo riusciti perché costa troppo. Abbiamo due bambini, vogliamo che abbiano una buona educazione e le spese scolastiche sono altissime». Manju invece pensa al futuro delle sue figlie, due gemelle, che adesso hanno dieci anni. Vuole mettere da parte i soldi per la loro dote affinché possano fare un buon matrimonio (la dote, un onere che molte famiglie non possono o non vogliono sostenere, è la principale causa di milioni di bambine abortite o uccise alla nascita in India).
Curare un famigliare, avere una casa, assicurare un futuro ai propri figli: a indurre le donne, in India e in altri Paesi, ad affittare il loro corpo sono spesso delle buone motivazioni, aspirazioni e progetti condivisi da miliardi di persone. Nel libro Madri, comunque, di Serena Marchi (Fandango libri, 2015), una donna ucraina, Natasha, che di mestiere fa la “madre per altri” a 10.000 euro per gravidanza, dice: «non c’è niente di male nel farlo, questi soldi servono per comprare una casa più grande in cui possa andare con la mia famiglia. Il mio corpo è fatto per procreare, perché non usarlo per aiutare la mia famiglia a vivere in condizioni migliori e al contempo rendere felice una coppia di genitori?». Negli Stati Uniti e in Canada un compenso è allettante se è nell’ordine delle decine di migliaia di dollari. Una donna indiana si accontenta di molto meno. I costi complessivamente inferiori rispetto ad altri Paesi spiegano come mai l’India in breve tempo sia diventata una meta mondiale del “turismo procreativo”, con un fatturato che ammonta a circa due miliardi di dollari l’anno.
Il Vansh Surrogacy Center paga alle “madri surrogate” 3.800 euro per bambino, più un bonus di 270 euro. Inoltre, le ospita e le segue dalla fecondazione al parto. Cerca le sue madri soprattutto nella classe operaia: «lì ci sono donne giovani, sposate che si dimostrano ottime surrogate», dice Bajrang Saharan, il titolare del centro, «naturalmente spieghiamo loro tutta la procedura e i rischi che comporta. Accettiamo soltanto il 50% di quelle che si offrono, scegliendole in base al loro stato di salute. Le assistiamo in tutto, dall’inizio alla fine». Non tutti i circa 20.000 centri esistenti in India trattano altrettanto bene le “madri surrogate”. Ce ne sono che, oltre a pagarle meno, rimandano le donne, una volta fecondate, a casa loro, «spesso in bidonville, in condizioni igieniche precarie e senza una dieta adeguata».
Benché occorra la firma di un contratto tra la donna e i committenti, l’88% delle “madri per altri” di New Delhi non ne conosce i termini e il 92% non ne possiede copia. Si verificano quindi casi di donne sfruttate, ma anche di genitori a loro volta sfruttati dai centri di procreazione e dalle stesse donne che approfittano della loro ansia di avere un bambino. Il governo pertanto sta preparando una legge per garantire che anche in India vengano tutelati al meglio i diritti sia dei committenti sia delle madri, sull’esempio – così si dice – di altri Paesi più “civili”.