GIUSTIZIA
Battisti, ecco perché il Brasile ha torto
I delitti non invecchiano e lo Stato ha il diritto-dovere di punirli, come insegna la morale della Chiesa.
Attualità
03_01_2011
La vicenda sembra capace di mettere d’accordo ogni partito, perfino nel rissoso teatrino della politica italiana: tutti – o quasi tutti – in queste ore hanno ingrossato la marea montante di chi reclama l’estradizione di Battisti. E’ un fenomeno interessante, che dimostra il carattere auto evidente e ragionevole del bisogno di giustizia che alberga nel cuore dell’uomo. Ovviamente, non sempre le parole sono usate in modo onesto, e capita che la sete di vendetta accechi l’opinione pubblica, spingendola sulle tracce del classico capro espiatorio: un colpevole qualunque, purchessia. Ma non sembra che questa ipotesi sia applicabile al caso Battisti, che è stato condannato dopo una serie di processi, regolari fino a prova contraria. I fatti attribuiti a quest’uomo dai tribunali italiani sono gravissimi, trattandosi di delitti contro la persona umana, e dunque non si vede per quale motivo egli dovrebbe sottrarsi alle conseguenze penali di ciò che gli viene imputato.
Qualcuno potrebbe obiettare che i delitti in questione sono stati commessi da Battisti molto tempo fa, in base all’argomento che definirei della “stagionatura” del delitto: “Ormai – si dice – quest’uomo non è più lo stesso che ha ucciso trent’anni fa, quindi a che servirebbe punirlo?” E’ un argomento che esprime una verità psicologica – è davvero probabile che un uomo sia cambiato dentro di sé anche moltissimo in un lasso temporale così rilevante – ma che non regge sotto il profilo morale e giuridico. Ciascuno di noi, infatti, rimane sé stesso quanto alla responsabilità, a prescindere dal tempo che ci separa da un’azione malvagia. Tanto più se il male compiuto ha leso i diritti di qualche vittima innocente, lasciando dietro di sé un carico di dolore straziante che il tempo può attenuare, ma non eliminare.
Altri diranno che Cesare Battisti è una vittima, e in parte otterranno la compassione e perfino la simpatia di una fetta dell’opinione pubblica. Ma la ragione ci dice che la verità è un’altra. E che punire non é una cosa da cattivi. Anzi: per fare il bene talvolta è necessario assumersi il compito ingrato di infliggere una pena. Il carcere è la risposta umana alla commissione di reati di una certa entità. Nessun si dovrebbe compiacere della condanna di un colpevole, ma la detenzione continua ad essere, a certe condizioni, necessaria. Si sbagliano, e di grosso, coloro che dipingono il carcere come il simbolo di un’idea disumana della giustizia, ottenendo il risultato paradossale che non si investono risorse e intelligenze nella costruzione di case di pena dignitose, con la conseguenza – questa sì disumana e inaccettabile – che molti fra i detenuti in Italia vivono oggi in condizioni vergognose.
Da sempre la Chiesa ha spiegato il diritto-dovere di punire da parte dello Stato sulla base di un principio morale classico: chi compie il male deve essere “retribuito” con una pena proporzionata al male commesso e alla responsabilità soggettiva. Si tratta di un principio cardine, che protegge il colpevole dall’arbitrio dello Stato, e garantisce alle vittime, ai familiari e a tutti i consociati la “soddisfazione” del desiderio legittimo di giustizia. Una giustizia umana, e quindi imperfetta, fallace, incapace di rimediare interamente al torto subito. Ma una giustizia necessaria. Immagine pallida ma efficace di quella giustizia finale che sarà amministrata da un Giudice sommamente buono e parimenti sommamente giusto. Davanti al quale, prima o poi, tutti devono presentarsi. E senza bisogno dell’estradizione.