«Basta Messa, facciamo noi laici». E il vescovo approva
Ascolta la versione audio dell'articolo
Liturgia della Parola curata dai laici al posto della Messa anche se il prete è presente. E "guai" a chiamare un sacerdote esterno perché è estraneo alla comunità. Parte da una parrocchia del modenese una nuova offensiva all'Eucarestia all'insegna della sinodalità e col benestare del vescovo.
Dal parroco influenzato al parroco assente giustificato o presente ingiustificato, ogni motivo è buono per sospendere la Messa: è l'idea “geniale” sinodale messa nero su bianco dalla parrocchia di San Celestino I di Castelnuovo Rangone, diocesi di Modena. Il consiglio pastorale ha pensato bene di dispensare i fedeli dalla Santa Messa in caso di assenza del parroco e anche in caso di presenza e nei confronti della proposta, il vescovo di Modena-Nonantola, Mons. Erio Castellucci, presente al consiglio pastorale del 22 aprile, pare aver mostrato apprezzamento.
È quanto compare nel verbale del consiglio pastorale della parrocchia che si è svolto il 22 aprile scorso presso la canonica di San Cesario sul Panaro e di cui la Bussola è entrata in possesso.
Com'è ormai di moda, il senso sarebbe quello di valorizzare il ruolo dei laici, mediante la promozione delle liturgie della Parola. Secondo il Consiglio pastorale, si tratterebbe anzitutto di sostituire una Messa feriale con tale liturgia, presente il reverendo parroco, il quale però dovrebbe cedere il posto della “presidenza” ad un fedele laico.
Perché a Castelnuovo Rangone il parroco c'è eccome, e non è nemmeno anziano, dal momento che don Fabrizio Colombini, ordinato nel 1996, appartiene alla classe 1971. E, guarda un po', insegna proprio Teologia dei ministeri e Teologia del laicato all'Istituto Superiore di Scienze Religiose dell'Emilia, con sede a Modena. E c'è pure un diacono, anche lui messo in panchina per dare spazio ai laici. Dunque, una volta alla settimana, la Messa feriale salta. Anzi, a quanto pare più di una, dal momento che negli orari delle Messe parrocchiali, si scopre che il lunedì e il venerdì non c'è né Messa né liturgia della Parola. Dunque, la Messa feriale viene celebrata due giorni su cinque.
La seconda decisione del Consiglio, ancora più grave, riguarda la sostituzione della Messa domenicale, in caso di assenza del parroco, con la liturgia della Parola, descritta nel verbale come «il passo avanti più significativo». «La domanda che ci si è posti – si spiega – è stata quella di capire se il bene della comunità fosse cercare un prete “sconosciuto”, che non ha legami con la comunità, in sostituzione del parroco, garantendo così la messa [minuscolo nel testo, n.d.a.] o far presiedere un laico e celebrare la Liturgia della Parola [maiuscolo nel testo, n.d.a.] con distribuzione dell’eucaristia [minuscolo nel testo, n.d.a.]. Si è scelta la seconda strada, consapevoli di fare un passo impegnativo, ma nella certezza che il valore della comunità che si riunisce a pregare non dipende dalla presenza del parroco o di un prete».
La risposta mette in luce il problema centrale di queste decisioni: la totale incomprensione del Sacrificio eucaristico, talmente svilito da anteporgli un vago «valore della comunità». E di fatti, nel verbale, non si fa il benché minimo accenno al valore infinito della Santa Messa.
Dunque, al caso di don Davide Baraldi, nella diocesi del Presidente della CEI (vedi qui), segue quello di don Colombini e del suo consiglio pastorale, nella diocesi del Vice-Presidente della CEI: una bella accoppiata.
Ma in entrambi i casi, i rispettivi vescovi e sacerdoti coinvolti vanno contro la legge della Chiesa, espressa nel vigente Direttorio per le celebrazioni domenicali in assenza di presbitero, il quale indicava con grande chiarezza che «prima che il vescovo stabilisca che si facciano riunioni domenicali senza la celebrazione dell’Eucaristia», come nei due casi citati, «devono essere esaminate la possibilità di fare ricorso ai presbiteri, anche religiosi, non addetti direttamente alla cura delle anime, e la frequenza alle Messe celebrate nelle diverse chiese e parrocchie» (n. 25). Dunque, quando il parroco non può assicurare la Messa domenicale, egli è tenuto a trovarsi un sostituto, e qualora anche ciò non fosse possibile, i fedeli sono tenuti a spostarsi in altre chiese vicine. Direttorio che spiegava altresì come i fedeli devono percepire «con chiarezza che tali celebrazioni hanno carattere di supplenza, né possono considerarsi come la migliore soluzione delle difficoltà nuove o una concessione fatta alla comodità» (n. 21).
È dunque singolare che agli zelanti fedeli riuniti nel Consiglio pastorale di Castelnuovo Rangone, né il parroco né il vescovo abbiano ricordato queste direttive. Una curiosa dimenticanza. Quest'ultimo ha al contrario incalzato «che quando manca il presbitero la comunità si può riunire e celebrare la Liturgia della Parola, evitando di cercare frettolosamente un prete che non ha relazioni con la comunità o evitando di far spostare le persone da una parrocchia all’altra in cerca di una messa». Soluzione che è esattamente l'opposto di quanto la Chiesa comanda ed indicativa di quanta poca fede vi sia ormai nell'Eucaristia, come si evince anche dalla facilità con cui nella medesima parrocchia si saltano le Messe feriali.
Ma il verbale contiene anche un altro grave errore, di fronte al quale il vescovo pare non abbia battuto ciglio. Non si dovrebbe pensare, secondo il Consiglio, «che il parroco debba essere l’unico detentore del potere decisionale», suggerendo così di potenziare sia il ruolo della segreteria del consiglio pastorale parrocchiale, che quello del consiglio pastorale. E invece è proprio così: il parroco è l'unico detentore del governo della parrocchia, in sottomissione al proprio vescovo (cf. can. 519).
Specificamente, per quanto riguarda i consigli pastorali sia diocesani che parrocchiali, essi godono di voto consultivo, non deliberativo, a norma dei canoni 514 e 536. Perché la potestà di governo, nella Chiesa, spetta a coloro che sono «insigniti dell'ordine sacro» (can. 129 §1), con i quali i fedeli laici possono certamente cooperare (§2), ma che non possono sostituire o relativizzare nella deliberazione.
Mons. Castellucci ha dunque trovato nella parrocchia di Castelnuovo Rangone, parole sue, uno di quei «progetti pilota (…) necessari per il futuro della Chiesa», l'avanguardia di quell'agognato processo sinodale, che punta dritto contro la struttura gerarchica della Chiesa, esortando a «preparare nelle parrocchie dei modelli diversi rispetto a quelli attuali “clericocentrici”», approfittando dello «stimolo» suscitato dal «calo dei preti», concetto di martiniana memoria. E salendo sul carro bergogliano della lotta a un non meglio precisato «clericalismo».
Ma la scure viene posta anche alla base dell'anima Eucaristica della Chiesa, con la scusa che «bisogna cominciare a far capire alle comunità: che la Liturgia non è solo la messa; che l’Eucaristia è sicuramente molto importante, ma non è l’unica forma di preghiera comunitaria». Scopo che, se fosse sincero, verrebbe perseguito, per esempio, con una maggiore cura della Liturgia delle Ore comunitaria, soprattutto i primi e secondi vespri della domenica, e non soppiantando la Santa Messa.
Da degno discendente giacobino (bisogna ricordare che una certa quota dei rivoluzionari furono preti...), nelle parole di Castellucci non manca quella tipica spocchia, che guarda con superiorità e malcelato disprezzo quanti hanno qualcosa da obiettare al “rinnovamento”. «Il vescovo – si spiega nel verbale – è convinto che chi fa scelte profetiche di solito apre strade nuove e cerca di contrastare il “si è sempre fatto così”, che purtroppo molto spesso, come dice sempre papa Francesco, risulta essere il veleno delle nostre comunità». Lui e il gruppetto di Castelnuovo sarebbero i profeti; quei fedeli che, secondo il verbale, alla vista del laico attivo e del prete seduto se ne sono usciti dalla chiesa, sarebbero nientemeno che il veleno. Spocchia che ha contagiato anche i “laici illuminati” del Consiglio pastorale, i quali non si vergognano di parlare di «persone che viaggiano a velocità diverse», di «tempi di maturazione della comunità molto lunghi», di fronte ai quali «ci si chiede quanto è bene aspettare».