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IL FILM DELL'ESTATE

Barbie, il fallimento dell'ideologia femminista

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Il film dell'estate, Barbie, non è un film femminista, ma una divertente disamina del femminismo passato e presente. E sul suo fallimento. Non solo pop e colori pastello, ma anche tanta riflessione sul ruolo dell'uomo e della donna. Finale sorprendente. Vietato nei Paesi musulmani. 

Cinema e tv 19_08_2023
Ryan Gosling e Margot Robbie

Passata la bufera mediatica e la mania promozionale del “tutti in rosa”, anche la Nuova Bussola Quotidiana si è avvicinata, con estrema cautela e riluttanza, al successo dell’estate: Barbie. Le premesse non fanno ben sperare. Sarà il solito polpettone femminista e woke? La regista, d’altra parte, è Greta Gerwig, la stessa che sta dirigendo un remake di Biancaneve senza nani e soprattutto senza principe. Invece Barbie è, almeno nel finale, una piacevole sorpresa, una pellicola divertente, autoironica, con due grandi interpreti (Margot Robbie e Ryan Gosling, rispettivamente Barbie e Ken) che danno profondità e umanità a personaggi di plastica.

Il film inizia come un qualunque pamphlet femminista. In una riedizione fedele delle scene iniziali di 2001 Odissea nello Spazio di Kubrick, le bambine del passato incontrano il loro monolite, una gigantesca Barbie e spaccano le loro bambole sulle pietre, un gesto di ribellione violenta contro il loro ruolo di madri. La Barbie rappresenta, così, l’utopia femminista. Vive in una terra di sogno, Barbieland, dove le bambole-donne possono diventare quel che vogliono, si premiano, si elogiano, lavorano nei cantieri e vanno nello spazio, sono felici e benvolute anche se sovrappeso, ballano anche se sulla sedia a rotelle, sono da Nobel e hanno una presidente nera. Ma se una resta incinta viene ritirata dal mercato, nascosta. I maschi ci sono, i Ken, ma sono solo accessori. Il Ken esiste nell'attesa di uno sguardo, di un'attenzione della Barbie, altrimenti non è. Sogno o incubo? La Barbie-stereotipo (la prima, bionda, che conosciamo tutti) a un certo punto inizia a pensare alla morte. È un problema. Per risolverlo deve entrare nel mondo reale, per mettersi in contatto con la sua bambina proprietaria e capire cosa la turbi. La segue Ken.

Nel mondo reale, Barbie rischia di finire come Pinocchio. Scoprirà che i maschi sono ancora al comando, persino nella Mattel che l’ha creata. Ken, al contrario, inizia ad esaltarsi, se non altro perché viene rispettato come persona e non solo come accessorio. Barbie incontra la “sua” bambina che non è più cresciuta nell’epoca del femminismo utopistico, ma di quello moderno, fatto di odio e lotta di genere. Ed è un cozzo frontale, la bambola viene insultata e cacciata perché “fascista”. I signori della Mattel, intanto, le danno la caccia perché nessuna Barbie viva deve entrare nel mondo reale. La povera bella bambola si salva solo perché incontra la vera proprietaria: la mamma della bambina, una donna matura che incarna il femminismo fallito e disilluso. Sogna ancora un mondo dove le donne comandano e decide di seguire la “sua” bambola a Barbieland. Nel frattempo, però, Ken ha preso il potere e l’ha trasformata nel patriarcato Kendom, tutto cavalli, muscoli, cappelli da cowboy e birra, la caricatura del machismo del West.

In un crescendo di delirio pop e di umorismo surreale, come era prevedibile le Barbie riprendono il potere, anche con la benedizione della Mattel (che non vuole un prodotto per maschi: al suo vertice sono maschi “femministi” per marketing). E se il film finisse qui, potrebbe essere archiviato come divertente ma inutile. Invece no, perché il finale gli dà un colpo di reni che fa salire di livello. In un commovente dialogo fra Barbie e la sua creatrice, il fantasma di Ruth Handler, la bambola decide infine di diventare umana, accettando la realtà: prima o poi invecchierà e morirà. Diventa comunque umana perché vuole cessare di essere un’idea per diventare parte della creazione e creatrice a sua volta. E la regista la mostra, in versione umana, dalla ginecologa: si presenta con un cognome e un nome e aspetta un figlio. La rottura iniziale della donna con il ruolo di madre è infine sanata in un atto di maturità. E l’uomo? Ken matura nel momento in cui si accetta come persona e non solo come accessorio di una Barbie. La Gerwig ci ha così offerto, forse senza volerlo, una via d’uscita intelligente dal tunnel della lotta di genere.

La pellicola è stata vietata in gran parte del mondo musulmano, perché, ad esempio, “va contro i valori della fede e della morale” (Libano), “promuove omosessualità e transessualità” (Algeria), diffonde “idee e convinzioni che sono estranee alla società e all’ordine pubblico kuwaitiani” (Kuwait). Accuse abbastanza strane, a dire il vero, considerando che nel film non compaiono neppure personaggi omosessuali, non ci sono scene di nudo e neppure di sesso. Si tratta di una produzione quasi pudica, rispetto agli standard attuali. Nel mondo islamico, tuttavia, è mal digerito un film diretto da una regista americana, su una bambola creata da un’imprenditrice ebrea e diventata simbolo dell’American Way of Life. E soprattutto non è concepibile una storia di donne e di uomini in cui non compare mai la famiglia. Anche quando Barbie è incinta, lo spettatore non sa di chi, come fosse un dettaglio “ininfluente”. Su questo Greta Gerwig è ancora femminista nel senso classico del termine. Anche se ha girato un film sul femminismo con un occhio disilluso e ironico. Ha mostrato il fallimento dell’ideologia e suggerito alle donne (e agli uomini) di riappropriarsi della loro identità naturale. In un’epoca di rivoluzione woke, la naturalità è già un atto di coraggio.