Barack Obama diventa ancora più radicale
Nonostante la batosta alle ultime elezioni politiche, anzi forse proprio grazie a questa, Barack Obama preme sull'acceleratore delle sue politiche più radicali di redistribuzione della ricchezza. Le annuncia nel suo discorso annuale sullo Stato dell'Unione. La ripresa economica glielo consente.
Dopo la sconfitta alle elezioni di Medio Termine dello scorso novembre, Barack Obama è tornato all’attacco con il suo discorso dello Stato dell’Unione, il momento programmatico che segna l’inizio dell’anno politico.
Nonostante la batosta politica, che ha fatto perdere al Presidente la maggioranza in entrambe le camere del Congresso in un giorno solo, Obama riesce a presentarsi con una bella vittoria in tasca: la ripresa economica. Dopo aver subito la peggior recessione del dopoguerra e dopo una ripresa al rallentatore e arrancante, i dati parlano finalmente di una rinascita economica. La disoccupazione, sempre attestata su livelli record, all’italiana, ora è tornata a riguardare il 5,6% degli americani, quasi la soglia naturale, come gli Stati Uniti (patria della piena occupazione) erano abituati. I mercati finanziari sono al rialzo e la crescita dell’economia reale, nell’ultimo trimestre 2014, ha registrato un +5%. Barack Obama è dunque pronto, dopo un mese di cautela, a cantare finalmente vittoria. Nella sua anticipazione del discorso allo Stato dell’Unione, ha già detto: “Negli ultimi sei anni siamo stati afflitti dall’eredità della peggior crisi finanziaria dai tempi della Grande Depressione (1929-1941, ndr) e grazie all’incredibile tenacia e resistenza del popolo americano, oggi l’America è finalmente nelle condizioni di voltar pagina”.
Voltar pagina, come? Il rapporto di Oxfam International sulla povertà nel mondo e sulle politiche redistributive per porvi rimedio sembra aver fornito la prima fonte di ispirazione alla strategia annunciata da Obama. Che consiste, infatti, nella più classiche delle formule progressiste: tassare i ricchi per aiutare i poveri. Tassare i ricchi: l’obiettivo è aumentare di 320 miliardi di dollari le entrate statali. Questa cifra considerevole, pari a più di un terzo dell’intera manovra finanziaria, sarà ottenuta soprattutto con l’aumento delle tasse sui capital gains, dall’attuale aliquota del 23,8% ad una del 28%, la più alta dai tempi di Ronald Reagan (trent’anni fa). Poi saranno colpite le eredità e verrà aumentata la pressione fiscale sulle banche. Barack Obama, colpendo queste categorie, va sul sicuro: sono le più odiate dal popolo, per lo meno dal suo popolo, quello della sinistra progressista. Aiutare i poveri, o meglio, la classe media, la più sofferente in assoluto in questa crisi: due anni gratis per gran parte dei ragazzi che studiano nei college, aumento delle ferie pagate per i genitori che hanno appena avuto figli (negli Usa non esiste la maternità pagata), maggiori esenzioni fiscali per i redditi medio-bassi. Questi sono i principali provvedimenti annunciati.
In Italia, per misure come queste, non protesterebbe nessuno, tantomeno a destra. Negli Stati Uniti, invece, l’opposizione repubblicana è in allarme. Perché, soprattutto le maggiori tasse ai ricchi, rischiano di compromettere la crescita appena conquistata. La sinistra dà sempre per scontato che la ricchezza sia un fatto acquisito, un dato di fatto, una torta da spartire. Mai viene preso in considerazione che chi ha più soldi ce li ha perché ha prodotto di più, a beneficio di tutti. E mai viene preso in considerazione, in questi piani, che chi guadagna di più contribuisce già maggiormente al gettito fiscale. L’1% più ricco d’America è quello che produce il 37% del gettito fiscale americano, pur condividendo il 19% del reddito nazionale.
Ma i repubblicani protestano anche per motivi morali: “Vedo che il presidente sta tornando alla sua lotta di classe – commenta a botta calda, per esempio, il deputato repubblicano Adam Kinzinger – Poteva anche essere efficace nel 2012, ma non credo lo sia più. Penso, francamente, che (il presidente, ndr) abbia esaurito le idee e non voglia lavorare assieme ai repubblicani”. Che ora sono in maggioranza al Congresso. Il tema della lotta di classe è ricorrente in tutte le sinistre, anche quella americana. Si aiuta la classe povera, ai danni di quella ricca. Se si imponessero tasse e regole uguali per tutti, secondo i democratici, si farebbe un torto ai ceti più deboli. Ma anche questo modo di agire riflette una visione statica della società e dell’economia, incapace di comprendere che il ragazzino della classe media di oggi, un domani può diventare un ricchissimo imprenditore (Bill Gates, Mark Zuckerberg, non sono nati ricchi, tanto per fare un paio di esempi eccezionali) e, una volta divenuto ricchissimo imprenditore, se sottoposto a tassazione punitiva, può spostare altrove la sua attività. Alternative, in una economia globale, ce n’è sempre.
C’è da chiedersi, poi, come mai Obama abbia scelto questo momento per realizzare la sua politica più caratterizzante, quella della redistribuzione della ricchezza. Fino allo scorso novembre, almeno, poteva contare sulla maggioranza in Senato, oggi nemmeno più in quella. A livello di popolarità, uno stratega repubblicano fa notare che: “Siamo appena andati a votare in un’elezione in cui erano messe alla prova le politiche di questo presidente. E’ difficile capire cosa sia cambiato negli ultimi 60 giorni”. La ripresa economica ha sicuramente migliorato l’immagine dell’inquilino della Casa Bianca, ma secondo il Pew Research Center, il tasso di approvazione è ancora al 47%, contro il 48% di disapprovazione. Cinque punti meglio rispetto allo scorso autunno, ma ancora insufficiente. Barack Obama, dunque, proprio perché non ha una maggioranza in Congresso, punta alla carta della politica del “nulla da perdere”, promuovendo la sua agenda più radicale, nel minor tempo possibile, nel modo più urlato possibile. Non è solo la ripresa economica a consentirglielo, ma anche l’idea che poco di quel che proporrà passerà illeso dai voti di un Congresso tutto repubblicano. Obama, se ne uscirà vincitore, potrà dire di aver vinto pur essendo in minoranza. Se ne uscirà sconfitto, potrà sempre dire di aver giocato onestamente le sue carte, di aver mantenuto le promesse elettorali “per il popolo”, ma di essere stato frenato da un’élite repubblicana ostile. In ogni caso spianerà la via al prossimo candidato democratico.
Sul fronte delle politiche sull’etica e sulle libertà personali, l’elettorato cristiano americano deve attendersi una potente offensiva laicista. Se le premesse per l’economia sono quel che abbiamo visto, non c’è che aspettarsi che Obama prema il piede sull’acceleratore anche su questo fronte, che è il più caratterizzante della sua amministrazione.