Azionismo? No grazie
Quelli per cui i mali dell'Italia derivano da una mancata riforma protestante,
in parte attuata dal Risorgimento, ora predicano dalle pagine di la Repubblica.
Rispondendo alle critiche rivolte da Giuliano Ferrara alla manifestazione antiberlusconiana di Milano, Ezio Mauro sul quotidiano da lui diretto, la Repubblica, rivendica l’ideologia del Partito d’Azione. L’azionismo, ammette Mauro, fu un fallimento politico - perché le sue idee rimasero quelle d’intellettuali ultraminoritari, incapaci di raccogliere un consenso elettorale significativo -, ma un grande successo culturale, giacché le tesi del Partito d’Azione furono a lungo egemoni in molti grandi giornali e crearono addirittura nuovi quotidiani, la Repubblica compresa. Oggi l’azionismo sarebbe, secondo lo stesso quotidiano, nello stesso tempo «un fantasma» agitato maliziosamente da Ferrara sul piano politico – perché la sua ricostituzione in partito è improponibile – e il vero antidoto morale al berlusconismo sul piano culturale.
Il Partito d’Azione, riprendendo il nome di una formazione repubblicana creata da Giuseppe Mazzini (1805-1872) nel 1853, nasce nel 1942 tra seguaci di Piero Gobetti (1901-1926), come sviluppo del movimento di esuli antifascisti Giustizia e Libertà fondato a Parigi poco dopo la morte di Gobetti dai fratelli Carlo (1899-1937) e Nello Rosselli (1900-1937), assassinati nel 1937 da esponenti dell’estrema Destra francese, secondo la grande maggioranza degli storici su mandato dei servizi segreti dell’Italia fascista. Il prestigio culturale di cui il Partito gode nella Resistenza gli permette addirittura di ottenere dopo la caduta del fascismo la presidenza del Consiglio con Ferruccio Parri (1890-1981). Alle elezioni del 1946 l’equivoco però si chiarisce: l’egemonia intellettuale che gli azionisti sono in grado di esercitare è inversamente proporzionale al loro consenso popolare. Ottengono solo l’1,5% dei voti, e sciolgono il partito, continuando però a esercitare il loro potere nei grandi giornali e nelle università.
L’azionismo, come ci ricorda Ezio Mauro, era e rimane oggi un’ideologia «intrisa di gobettismo» e «insofferente al clericalismo cattolico e comunista». La sua ambizione era quella di costruire in Italia una Sinistra anticlericale, e anzi anticattolica, ma nello stesso tempo non comunista. L’azionismo, infatti, era radicalmente relativista, e nel comunismo vedeva ancora una pretesa di verità, mentre si trattava di far maturare gli italiani convincendoli piuttosto che la verità non esiste, se non in forme sempre provvisorie e relative.
Di Gobetti l’azionismo riprendeva - e diffondeva ampiamente nelle scuole e nelle università - la tesi secondo cui l’arretratezza dell’Italia deriva dal fatto che nel nostro Paese è mancata una Riforma protestante, la quale avrebbe invece garantito prosperità e sviluppo economico e politico alle nazioni più avanzate dell’Europa Settentrionale. A questa drammatica mancanza, sostenevano gli azionisti, avrebbero poi cercato di ovviare il Risorgimento prima e la Resistenza poi. La tesi di Gobetti del legame fra la mancata Riforma protestante e l’arretratezza italiana deriva una vecchia opera dell’economista ginevrino Jean-Charles Léonard Simonde de Sismondi (1773-1842), la Storia delle repubbliche Italiane dei secoli di mezzo, cui aveva risposto nel 1819 anche Alessandro Manzoni (1785-1873) con le sue Osservazioni sulla morale cattolica. Ma la prolissa e scadente opera di Sismondi - autore che per altro verso, quando si era occupato non di storia ma di economia politica, aveva scritto anche cose pregevoli - non era mai stata presa troppo sul serio dagli storici di professione.
Gobetti tiene ampio conto anche degli attacchi anticattolici sia del filosofo francese Ernest Renan (1823-1892) sia del filosofo e uomo politico ceco Tomáš Garrigue Masaryk (1850-1937) - tra l’altro, esponente di primo piano della massoneria europea -, la cui opera La Russia e l’Europa, che collega la Chiesa Cattolica e quelle ortodosse orientali all’arretratezza e il protestantesimo alla prosperità, diventa famosa anche negli ambienti marxisti per i commenti, sia pure non privi di critiche, che le sono dedicati da Lev Davidovi? Trotsky (1879-1940). Gli stessi Masaryk e Trotsky sono autori da non trascurare quando si ricostruisce la genealogia più recente - i prodromi, infatti, risalgono all’Illuminismo - della tesi azionista secondo cui l’arretratezza dell’Italia è dovuta alla sconfitta nel nostro Paese della Riforma protestante. Ma l’apparato scientifico che questi autori possono mettere in campo a sostegno della tesi rimane modesto.
Le cose cambiano, però, quando in Italia si comincia a leggere l’opera sociologica di Max Weber (1864-1920). Fra il 1904 e il 1905 Weber pubblica la prima edizione di uno dei lavori più importanti nella storia della sociologia, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Questo scritto - senza che se ne possa rendere particolarmente responsabile l’autore - gioca, diversi decenni dopo, un ruolo decisivo anche nella costruzione dell’ideologia azionista. Nella sua ricerca - che si dovrebbe definire notissima, se non fosse per il fatto che è spesso più citata che letta -, Weber sostiene la teoria delle affinità elettive fra una certa forma di protestantesimo e il processo di modernizzazione collegato al capitalismo.
Agli azionisti sembra che l’opera di Weber possa finalmente offrire la chiave scientifica per confermare la vecchia tesi di Sismondi. La teoria che identifica il progresso economico e politico con il protestantesimo e l’arretratezza con il cattolicesimo passa, per così dire, dall’utopia alla scienza. Il cattolicesimo diventa così un’eredità negativa di cui, si dice, occorre liberarsi per avviare anche nel nostro Paese un processo di modernizzazione e di progresso, avviato dal Risorgimento proprio in quanto laico e anticlericale e - in questo senso - autentica versione italiana della Rivoluzione Francese.
Dal punto di vista intellettuale, gli azionisti commettevano due errori. Anzitutto, la tesi secondo cui è stato il protestantismo a creare l’economia moderna è sbagliata. Per esempio, i cattolici cittadini di Firenze e di Prato, non avevano atteso il protestantesimo per dare prova nel Medioevo di uno spirito imprenditoriale già veramente moderno, come ricordava, reagendo alla vulgata weberiana che si andava diffondendo in Italia, un’importante opera del 1934 di Amintore Fanfani (1908-1999) – che fu grande storico dell’economia prima di dedicarsi alla politica – dal titolo Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo, un libro che si legge con profitto ancora oggi (lo ha ripubblicato Marsilio a Venezia nel 2005).
In secondo luogo, Weber non sosteneva affatto che il protestantesimo avesse di per sé creato il capitalismo e liquidava le tesi alla Sismondi definendole «scioccamente dottrinarie». Weber - non è questa la sede per valutare se a torto o a ragione - pensava che il primo protestantesimo, quello di Martin Lutero (1483-1546), condividesse con il cattolicesimo uno spirito difficilmente conciliabile non con l’economia moderna, ma con il capitalismo della rivoluzione industriale. Questa infatti si sarebbe affermata principalmente in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, per influsso - secondo Weber - non del primo protestantesimo luterano, ma del secondo protestantesimo di matrice battista e metodista, per una serie di ragioni a suo avviso culturalmente «affine» alla rivoluzione industriale.
Nell’azionismo, dunque, sul Weber reale - certamente non infallibile quanto a interpretazioni del protestantesimo - ha prevalso un Weber ideale e mitologico, volgarizzato a uso e consumo di un’ideologia di partito. Per questo partito «fatta l’Italia» non si trattava soltanto di «fare gli italiani» – secondo l’espressione attribuita a Massimo d’Azeglio (1798-1866) –: occorreva piuttosto fare l’Italia contro gli italiani, disfare l’Italia tradizionale radicata nel cattolicesimo per costruirne una nuova, progettata a tavolino, modellata sulle presunte caratteristiche delle più avanzate nazioni protestanti europee. Gli italiani non si fecero ingannare, e quando gli azionisti si presentarono alle elezioni furono, come si è visto, sonoramente sconfitti. Non si arresero, e - sostenuti da una rete di poteri forti tra cui vi erano senza dubbio anche molte logge massoniche - continuarono a cercare di rifare gli italiani «educandoli» dalle tribune dei grandi giornali.
Oggi usano il bunga bunga come pretesto per salire sul carro dell’antiberlusconismo, anzi prenderne la guida e di lì continuare le loro prediche pericolose e malsane, sfruttando anche il sostegno di quella corrente cattolico-democratica che nei confronti dell’azionismo, come notava già Augusto Del Noce (1910-1989), ha sempre avuto un complesso d’inferiorità. Del Noce denunciava il mito dell’unità antifascista come grimaldello usato dagli azionisti per penetrare nella casa dei cattolici e reclutarne qualcuno per una battaglia che, in realtà, era profondamente anticattolica. Oggi l’operazione si ripete intorno al mito dell’unità anti-berlusconiana. Per non cadere in questi inganni, occorre rispedire al mittente ogni invito a riscoprire o rivalutare l’azionismo, un’ideologia che non è nemica solo del fascismo o di Berlusconi, ma è soprattutto nemica della Chiesa e dell’Italia.