Avanza il suicidio assistito. Vescovi e medici dicono no
Prosegue alla Camera dei Lord l'iter del disegno di legge sul suicidio assistito in Inghilterra e Galles. Ma una lettera di 1.689 medici e infermieri sottolinea i danni del passaggio «dal preservare la vita al togliere la vita». La Conferenza episcopale esorta a pregare e firma, con anglicani ed ebrei, una dichiarazione contro la modifica normativa.
Ieri si è svolta alla Camera dei Lord la seconda lettura del disegno di legge sul suicidio assistito, presentato dalla baronessa Molly Meacher. La proposta è passata senza alcun voto (con un gruppo pro vita come la Spuc che critica la decisione mentre, sullo stesso fronte, Right to Life UK la interpreta in chiave positiva) alla fase successiva prevista dall’iter, cioè in commissione, dove ci si attende un grande numero di emendamenti.
Il testo prevede di legalizzare la pratica in Inghilterra e Galles (ma anche la Scozia è alle prese con una proposta simile), in presenza di un maggiorenne ritenuto «malato terminale», per il quale ci si aspetta «ragionevolmente» che muoia, alla luce della sua malattia, «entro sei mesi». Una persona con queste caratteristiche deve firmare una dichiarazione in cui manifesta il suo desiderio «volontario, chiaro, deciso e informato» di ottenere il suicidio assistito. La sua richiesta deve essere controfirmata da due medici, uno «curante» e l’altro «indipendente», e poi sottoposta all’Alta Corte (Family Division). Se approvata, l’assistenza al suicidio avverrebbe attraverso la prescrizione e preparazione di farmaci, letali, che infine sarebbe lo stesso paziente ad assumere. Il tutto descritto alla stregua di una procedura burocratica, come se la vita umana avesse la dignità di una scartoffia qualunque.
Questo, in estrema sintesi, il contenuto del cosiddetto «Assisted Dying Bill» (Disegno di legge sulla morte assistita), ingannevole fin dal titolo, che cela la parola «suicidio», secondo un trucco già adottato in altri Paesi. Il termine compare una volta sola nell’intero testo esclusivamente per riferirsi alla modifica, volta alla depenalizzazione, da inserire (in caso di approvazione) nella relativa sezione del Suicide Act 1961, che stabilisce una pena fino a 14 anni di carcere per chi aiuta o istiga al suicidio. Falsificare il linguaggio non cambia la realtà dei fatti, ma è funzionale ad approvare e far digerire meglio alla società un male che fino a poco tempo prima era universalmente condannato.
Ma la resistenza al male, grazie a Dio, ancora c’è e negli ultimi giorni diverse voci si sono levate per dire no alla proposta della baronessa Meacher, il cui iter è ancora nelle sue fasi iniziali. La protesta probabilmente più significativa fin qui è stata la lettera firmata da 1.689 addetti ai lavori, tra medici e infermieri, e rivolta al ministro della Salute, Sajid Javid. «Non toglieremmo la vita ai pazienti neanche se ce lo chiedessero», si legge nella missiva indirizzata il 19 ottobre a Javid (da parte sua contrario, secondo il Daily Telegraph, al disegno di legge, che non ha il favore nemmeno di Boris Johnson). Medici e infermieri, nel solco del Giuramento di Ippocrate, sottolineano che «il passaggio dal preservare la vita al togliere la vita è enorme e non dovrebbe essere minimizzato».
I quasi 1.700 firmatari smontano l’idea che i paletti presenti nella legge possano renderla accettabile. «È impossibile per qualsiasi governo redigere leggi sul suicidio assistito che includano protezioni legali contro la futura estensione ed espansione di tali leggi». È infatti esperienza comune ai Paesi che hanno legalizzato un male (si pensi al divorzio, all’aborto, alla fecondazione artificiale, alle unioni civili, all’eutanasia stessa, ecc.) la progressiva deriva verso pratiche sociali e normative sempre più gravi. Ma anche qualora un’ulteriore deriva non si realizzasse, rispettando rigorosamente tutte le “condizioni”, nulla toglierebbe all’intrinseco carattere malvagio di una legge, come in questo caso, che depenalizza l’assistenza al suicidio.
Perciò questi medici e infermieri affermano che «qualsiasi cambiamento», rispetto all’attuale divieto, «minaccerebbe la capacità della società di salvaguardare i pazienti vulnerabili dagli abusi». Inoltre, esso «minerebbe la fiducia che il pubblico ripone nei medici e manderebbe un messaggio chiaro ai nostri pazienti fragili, anziani e disabili sul valore che la società attribuisce loro come persone…», inducendole cioè a sentirsi un inutile peso. E se ne oscurerebbe, aggiungiamo, l’infinita dignità di creature con un corpo e un’anima immortale, le cui sofferenze - se accettate alla sequela di Cristo - hanno un valore enorme nel piano di salvezza.
Alla presa di posizione provvidenziale di questi 1.689 medici e infermieri fa da contraltare il pilatesco giudizio della British Medical Association, il sindacato che a settembre di quest’anno ha cambiato la sua posizione sul suicidio assistito da contraria a «neutrale».
Monsignor John Sherrington, responsabile dei temi pro vita in seno alla Conferenza episcopale dell’Inghilterra e del Galles (Cbcew), ha esortato i fedeli a pregare per sconfiggere questo disegno di legge. Sherrington, in particolare, ha promosso una novena a san Giovanni Paolo II (dal 14 al 22 ottobre), vista anche la coincidenza del giorno della seconda lettura dell’Assisted Dying Bill con la memoria liturgica del grande pontefice polacco, il quale «ha parlato coraggiosamente del valore infinito di ogni persona umana e testimoniato la croce nella sua ultima malattia». Tutto il contrario della normativa all’esame della Camera dei Lord.
Contro il disegno di legge si sono apertamente schierati, con una dichiarazione interreligiosa pubblicata il 19 ottobre, il cardinale Vincent Nichols (presidente della Cbcew), l’anglicano Justin Welby (arcivescovo di Canterbury), e il rabbino capo Ephraim Mirvis. I tre ritengono che la baronessa Meacher intenda alleviare le sofferenze, ma non ne condividono i «mezzi» proposti (il suicidio, appunto), che sono un pericolo per i più vulnerabili. «Per le fedi che professiamo, riteniamo che ogni vita umana sia un dono prezioso del Creatore, da sostenere e proteggere», scrivono Nichols, Welby e Mirvis, i quali chiedono di «rendere disponibili cure palliative di alta qualità a tutti alla fine della loro vita». E concludono con un gioco di parole che fa il controcanto agli eufemismi suicidari: «Crediamo che l’obiettivo di una società compassionevole dovrebbe essere la vita assistita piuttosto che l’accettazione del suicidio assistito».