Auguri, Dante! Ma ora prendiamolo sul serio
Celebrazioni in Senato per il 750° anniversario della nascita, con Benigni show. L'auspicio è però che impariamo a seguire Dante Alighieri nel pellegrinaggio della vita così come lui lo ha vissuto e ci indica. La Divina Commedia è stata scritta perché potessimo intraprendere il viaggio verso la felicità e la salvezza eterna.
Che ci sia un plauso generale a Dante nel giorno che a Palazzo Madama il Senato dà avvio alle celebrazioni per il settecentocinquantesimo anniversario della nascita del Fiorentino non sorprende affatto.
Non sorprende l’entusiasmo per la declamazione da parte di Benigni del canto conclusivo del Paradiso e per l’esecuzione del «Canto della Vita nuova» (composizione di N. Piovani) da parte di Piovani (al pianoforte), R. Baldini (alle tastiere) e del soprano R. Feola. Allo stesso modo non sorprende neppure il fatto che molti si uniscano alle parole di Papa Francesco che addita in Dante un «profeta di speranza, annunciatore della possibilità del riscatto, della liberazione, del cambiamento profondo di ogni uomo e donna, di tutta l’umanità». Abbiamo tutti bisogno di speranza, di parole che possano confortare e infondere entusiasmo.
L’auspicio è, però, che gli uomini del 2015 sappiano prendere davvero sul serio le parole di Papa Francesco quando scrive che «la Commedia può essere letta […] come un grande itinerario, anzi come un vero pellegrinaggio, sia personale e interiore, sia comunitario, ecclesiale, sociale e storico, […] il paradigma di ogni autentico viaggio in cui l’umanità è chiamata a lasciare quella che Dante definisce «l’aiuola che ci fa tanto feroci» (Par. XX, 151) per giungere a una nuova condizione, segnata dall’armonia, dalla pace, dalla felicità. È questo l’orizzonte di ogni autentico umanesimo».
In altre parole, tutto il viaggio di Dante rappresenta il cammino nella vita di ogni uomo. Chi legge la Commedia col cuore non può che percepire come essa parla di lui, della sua aspirazione ad una vita piena, alla felicità e alla salvezza. Consigliamo a tutti di intraprendere il viaggio con Dante, di iniziare a guardare la profondità del proprio animo, la nostra capacità di male. Dobbiamo guardare la selva oscura in cui ci troviamo, la solitudine del mondo, il non senso che percepiamo nelle nostre giornate. Ogni uomo, quando si trova in difficoltà, vorrebbe risolvere il problema da solo e salire il colle luminoso, la strada giusta, che lui ha visto con i suoi occhi. Da soli, però, non possiamo farcela, perché roviniamo «in basso loco».
Allora accade un imprevisto, un incontro che ci salva dalla selva oscura. Scrive Dante: «Mentre ch'i' rovinava in basso loco,/ dinanzi a li occhi mi si fu offerto/ chi per lungo silenzio parea fioco./ Quando vidi costui nel gran diserto,/ «Miserere di me», gridai a lui»». La mendicanza è l’atteggiamento più vero che spalanca alla salvezza. Da questo atteggiamento scaturisce la possibilità di iniziare a guardare la realtà in maniera più vera, non a partire da quello che abbiamo in mente in noi, ma da quanto è più buono, così come Virgilio dice a Dante nel canto primo: «A te convien tenere altro viaggio […] se vuo’ campar d’esto loco selvaggio». La proposta che Virgilio fa a Dante è di seguirlo, di stare in sua compagnia. Così, dopo che Dante è ancora preso dalla paura, anche nel secondo canto quando è convinto di non essere all’altezza, o nel terzo canto quando deve varcare la porta con sopra l’epigrafe spaventosa («Per me si va nella città dolente…»), Virgilio lo prende per mano «con lieto volto» e lo introduce alle «secrete cose». Non c’è verso della Commedia in cui non si respiri l’esperienza e la fatica di uomini che vogliono fare da soli e rifiutano la luce di Dio o di uomini che, invece, si lasciano abbracciare dall’amore e dalla grazia.
Così quando nel canto III del Purgatorio Virgilio è dispiaciuto per un piccolo errore che ha commesso, Dante auctor esclama: «O dignitosa coscienza e netta/ come t’è picciol fallo amaro morso», ovvero il poeta dice che tanto più una persona è pulita nella coscienza tanto più si sente responsabile e peccatore. E pochi versi dopo ancora scrive che i suoi piedi lasciarono andare la fretta «che l’onestade ad ogn’atto dismaga», ovvero la fretta toglie, sottrae la bellezza ad ogni cosa bella. Qualunque cosa tu faccia, falla bene, per non sminuirne la bellezza. E poi ancora leggiamo: «Perder tempo a chi più sa più spiace», cioè quanto più sei consapevole, tanto meno vuoi sprecare tempo. Una perla di saggezza dopo l’altra, che derivano dall’esperienza di vita dell’autore, che documentano e illuminano il nostro al di qua, prima dell’aldilà. Nello stesso canto Dante sintetizza in maniera potente l’aspirazione dell’uomo a conoscere la verità e il Mistero e ad un tempo la necessità della rivelazione: «Matto è chi spera che nostra ragione/ possa trascorrer la infinita via/ che tiene una sustanza in tre persone. […]/ Se potuto aveste veder tutto,/ mestier non era parturir Maria».
L’auspicio è che oggi ci sia una reale ed effettiva partecipazione (termine che traduce la parola latina «celebrazione») all’insegnamento di Dante che ha rinunciato a tutto pur di comunicare la verità. Dante non ha avuto paura dell’esilio, della solitudine, ha avuto solo timore di non raccontare la verità e di perdere la gloria presso coloro che avrebbero chiamato antico il suo tempo, cioè noi. È certo che la verità si affermerà («fin che l'ha vinto il ver con più persone» Purgatorio XXVI). Quando leggiamo Dante, scopriamo che esiste l’aldilà, proprio quell’aldilà che l’Occidente odierno ha cercato di cancellare, come scrive Jean Delumeau: «La storia dell’Occidente moderno non è che la storia della graduale uscita dell’uomo dall’incubo della dannazione; non è che un tentativo violento di liberarsi dalle ipotesi “Inferno”, “diavolo”». Chi oggi festeggia Dante è cosciente che il poeta ci ha parlato di una Presenza (il Mistero, Dio, Cristo) e che, quando noi non La riconosciamo, la nostra vita è più cupa, più tetra, più triste, perché piena di peccato (la selva oscura)?
Dante ha scritto per noi che avremmo chiamato antico il suo tempo, ha scritto per tutti quei miliardi di persone che avrebbero vissuto dopo di lui. In una lettera indirizzata a Cangrande della Scala, Dante scrive che il fine della Commedia è quello «di rimuovere i viventi, cioè noi finché siamo in vita, dalla condizione di miseria, di peccato, di tristezza, e accompagnarci alla felicità e alla beatitudine». La Divina Commedia è stata scritta perché potessimo intraprendere il viaggio verso la felicità e la salvezza eterna.