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TERRORISMO

Attacco a Giacarta. Le mani del Califfato sull'Indonesia

Un raid terroristico a Giacarta, capitale dell'Indonesia. Questa volta, però, è stato condotto con grande imperizia. Ha provocato due vittime e venti feriti, quando avrebbe potuto concludersi in un massacro di grandi proporzioni. E' stato ordinato dal locale leader dell'Isis, in competizione con altri gruppi islamici che vogliono rendere il Sud Est asiatico una provincia del Califfato.

Esteri 15_01_2016
Giacarta, bomba davanti allo Starbucks

Un commando di uomini armati ha attaccato a Giacarta, capitale dell’Indonesia, ieri mattina, in un viale ricco di centri commerciali, locali pubblici e sedi di ambasciate. L’esito è di due morti e una ventina di feriti fra i civili. Tutti e cinque i terroristi sono stati uccisi dalla polizia, salvo due che si sono fatti esplodere. L’attacco suicida-omicida, come era ampiamente prevedibile, è stato rivendicato dallo Stato Islamico.

Gli jihadisti avrebbero potuto fare un massacro, delle dimensioni di quello di Parigi, ma sono loro che hanno registrato più perdite rispetto alle loro potenziali vittime. Un primo terrorista suicida ha provato a uccidere i poliziotti di guardia, facendosi saltare con una bomba artigianale a ridosso di un posto di guardia, all’intersezione fra il viale Thamrin e la via del centro commerciale Sarinah. Non ha provocato morti, oltre a se stesso, ma solo danni alla struttura protetta, il box in cui gli agenti di polizia erano protetti. Un altro attentatore suicida si è fatto esplodere di fronte al locale Starbucks, all’angolo del centro commerciale. Poi gli altri membri del commando hanno sparato sulla gente in fuga. E’ in questa azione che sono state uccise e ferite tutte le vittime dell’attacco. Altre esplosioni, almeno quattro secondo le testimonianze, sono state causate da bombe a mano lanciate dai terroristi. I tre sopravvissuti si sono poi barricati nel cinema Djakarta Theatre, dove hanno scambiato colpi di arma da fuoco con la polizia, ma hanno resistito per poco prima di essere uccisi. Un attacco di “dilettanti e mal addestrati”, come li ha definiti la polizia indonesiana.

Secondo l’ispettore capo di Giacarta, Tito Karnavian, dietro l’attacco vi sarebbe la mente di Bahrun Naim, leader dello Stato Islamico indonesiano, pluri-ricercato e attualmente in Siria. Dopo il massacro di Parigi del 13 novembre scorso, aveva subito lodato i terroristi e scritto un articolo sul suo blog (ora soppresso) sulle lezioni da trarre da quel raid. E su come ripeterlo in patria, ovviamente. Un attentato era atteso da mesi. A dicembre, l’Isis aveva annunciato un “concerto di bombe” che avrebbe “attirato l’attenzione del mondo” in Indonesia e che avrebbe dovuto aver luogo la notte di Capodanno. Anche Al Qaeda, da due decenni ben radicata nell'area, aveva minacciato l'Indonesia, per bocca del suo stesso leader Ayman Al Zawahiri. Il piano per un attentato di Capodanno è stato però sventato in anticipo, con l’arresto di nove persone, e quello a cui abbiamo assistito ieri è, dunque, una pallida traccia di quel che avrebbe potuto accadere: un attacco condotto da una cellula superstite. L’impreparazione e l’improvvisazione con cui è stato condotto l’attacco si possono spiegare anche per questo. Ma soprattutto per l’assenza di terroristi veterani, con esperienza nelle guerre in Afghanistan e in Siria. Una prima generazione di jihadisti indonesiani, affiliata ad Al Qaeda, aveva colpito duramente il paese a Bali nel 2002 (202 vittime), ma è finita quasi tutta in carcere a seguito di massicce retate anti-terrorismo. Da allora gli attacchi sono stati abbastanza frequenti fino al 2009, quando due terroristi suicidi avevano provocato 7 vittime negli hotel di lusso Ritz e Marriott di Gacarta. Da allora, negli ultimi sei anni, non si era registrato più nulla. Fino all’attacco di ieri.

Il raid di Giacarta e il modo in cui è stato condotto dimostra anche una notevole fretta. Fretta di compiere un attacco all’Indonesia, pur di attirare l’attenzione anche su quell’angolo di mondo islamico. Karnavian lo spiega con la competizione fra leader dello Stato Islamico nel Sudest asiatico. Bahrun Naim vuole distinguersi come guida del terrorismo jihadista in una regione che, oltre all’Indonesia (la nazione musulmana più popolosa del mondo) ha assistito in un trentennio al sorgere di molti gruppi islamici radicali, da quelli che operano ad Aceh (Indonesia occidentale) per ottenere legge islamica e indipendenza, ad Abu Sayyaf, il movimento islamico di Mindanao, nel Sud delle Filippine, passando per la Jemaah Islamiyah nel Sud della Tailandia. Le autorità filippine hanno denunciato, l’anno scorso, il pericolo di una fusione fra il gruppo Abu Sayyaf con gli altri gruppi della regione, in vista della nascita di una nuova provincia asiatica del Califfato. Si tratta ancora di una galassia di gruppi, non coordinati fra loro, su cui l’Isis aspira a conquistare un ruolo di guida. L’attacco a Giacarta ha avuto sicuramente un fortissimo impatto mediatico, essendosi svolto a solo un chilometro dall’ambasciata degli Stati Uniti e a poche centinaia di metri dagli uffici dell’Onu e dalle sedi diplomatiche di Gran Bretagna, Francia, Germania e Giappone, in una zona sempre piena di turisti. Un bersaglio ideale per l’Isis, sicuramente. Costituirà un modello per azioni future? La polizia, per ora, ha dimostrato di saper dominare la situazione.

Anche se la scena indonesiana appare sotto controllo, per merito di una polizia che monitora bene i gruppi di jihadisti, l’Indonesia si sta comunque trasformando di nuovo in una fucina di terroristi. Dai 300 ai 700 (a seconda delle stime) sono già partiti volontari per la Siria. Ma è soprattutto l’ideologia islamica radicale che si diffonde a macchia d’olio. Lo dimostra la metamorfosi della provincia di Aceh, ormai un vero e proprio Stato Islamico istituzionalizzato, e l’introduzione di leggi e regole più conformi alla sharia, anche nel resto del paese. E’ l’opinione pubblica che chiede l’islamizzazione, accontentata da ulema, magistrati e classi politiche locali. Di questa radicalizzazione resta vittima, spesso e volentieri, soprattutto la minoranza cristiana.  In questo humus culturale sono cresciuti circa 30 gruppi terroristici che hanno giurato fedeltà al Califfato. E che vorrebbero trasformare l’enorme nazione asiatica in una sua provincia orientale.