Atleti e mal di vaccino, urge una ricerca delle Federazioni
Non c’è solo la maggiore incidenza di problemi cardiaci, ma anche un diffuso indebolimento del sistema immunitario. Diversi atleti hanno chiamato in causa i vaccini anti-Covid. Serve una ricerca seria promossa dalle Federazioni sportive internazionali. Ma prima va superato il tabù culturale creato da governi, colossi farmaceutici e media.
Ormai non passa giorno senza che qualche professionista dello sport (atleta, giornalista o dirigente) non faccia un appello agli organismi sportivi nazionali e internazionali perché indaghino sulle ragioni dei tanti, troppi malesseri fisici (alcuni addirittura irreversibili o fatali), che impediscono a molti tesserati di svolgere una normale attività agonistica. Un fenomeno che non risparmia nessuna disciplina e non è ristretto ad alcune aree geografiche, ma universale.
Finché ad accasciarsi sul campo erano adolescenti, a lamentarsi al più era qualche genitore. Ora che invece la cosa tocca i professionisti al più alto livello, il clamore comincia a farsi mediatico.
Diversi atleti hanno chiamato in causa apertamente i vaccini anti-Covid correlando un aumento esponenziale di malanni invalidanti l’attività agonistica con il periodo dell’inoculazione delle terze dosi. Un grido d’allarme motivato non solo dalla maggiore incidenza di problemi cardiaci, ma anche dalla semplice constatazione che il sistema immunitario si è talmente indebolito da non riuscire a opporsi a malanni, anche banali, che in epoche anteriori erano sconosciuti ai più o se non altro facilmente tenuti a bada senza bisogno di interrompere l’attività agonistica.
La Federazione italiana medici sportivi, con un questionario diffuso negli ambulatori dei propri associati, ha provato invece a deviare la palla sul Covid e sul long Covid, anche se un’altra ricerca americana pubblicata a novembre dal British Journal of Sports Medicine, su 3597 atleti contagiati statunitensi di college e università, ha rivelato che solo l’1,2% presentava sintomi di lungo periodo. Una ricerca - questa - limitata peraltro alla fascia meno a rischio (18-24 anni) e che non era in grado di distinguere quali effetti avversi fossero figli della malattia o invece del vaccino.
Peraltro i medici sportivi italiani stanno auspicando un registro di atleti non vaccinati ed è singolare che non si adoperino al contempo per averne uno analogo - ben più importante - sugli effetti avversi o sulle sequele della vaccinazione. È ormai evidente che non si possa delegare tale ricerca alla farmacovigilanza, per lo meno nel nostro Paese, dove - per stessa ammissione dell’AIFA - la farmacovigilanza attiva non supera il 4% delle segnalazioni totali (percentuale persino sovrastimata) e dove quella passiva è unanimemente considerata di gran lunga sottostimata.
Qui sta il punto. Se vogliono raccogliere l’appello dei loro atleti, le Federazioni internazionali devono associarsi e finanziare una ricerca seria sugli effetti tra gli sportivi non solo del Covid ma anche delle vaccinazioni, giusto per togliersi il dubbio e calibrare eventuali contromisure. È ovvio però che prima vada rimosso un tabù culturale, promosso dalle politiche sanitarie governative e dai colossi farmaceutici spalleggiati dai media: quello che ha impedito finora un approccio serio, libero e scientifico agli eventuali esiti avversi o sequele negative del trattamento farmacologico anti-Covid.