Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Sant’Eliseo a cura di Ermes Dovico

La lettera

Assistenti sociali, l’Ordine lombardo pro gay pride è un problema

Ascolta la versione audio dell'articolo

Anche quest’anno l’Ordine degli assistenti sociali della Lombardia sostiene apertamente il gay pride. E lo fa con motivazioni inappropriate, dimenticando che c’è differenza tra desideri e diritti, e che non tutti gli iscritti condividono l’ideologia Lgbt.

Attualità 13_06_2025
Milano Pride 2017 (LaPresse)

L'Ordine degli assistenti sociali della Lombardia ha deciso, anche quest'anno, di sostenere la variopinta galassia Lgbt. Lo ha fatto invitando l'intera comunità professionale alla partecipazione al Pride di Milano, in programma il prossimo 28 giugno. Tutti in piazza, «dietro lo striscione dell'Ordine», per «promuovere la cultura della differenza e contrastare ogni forma di discriminazione». Questo è ciò che chiede il Consiglio dell'Ordine insediatosi in Lombardia lo scorso maggio. Va detto, tuttavia, che è un problema che ha coinvolto anche altri ordini.

Ma perché un ordine professionale (organismo con dei compiti istituzionali ben precisi e definiti) deve intervenire e schierarsi in modo netto su una tematica così complessa e per certi aspetti divisiva? E soprattutto, perché prendere posizione a nome di una intera categoria, non curandosi del fatto che, all'interno di una professione, possano esserci varie sensibilità? Di fronte a questa domanda, vari ordini hanno abbozzato risposte vaghe, basate su nebulosi riferimenti che hanno richiamato la difesa di generici “diritti civili”, la lotta alla discriminazione, il contrasto all’omofobia, eccetera.

L'Ordine lombardo degli assistenti sociali ha inoltre giustificato il sostegno al mondo Lgbt richiamando il Codice deontologico e la Costituzione italiana. Vero è che il Codice deontologico degli assistenti sociali, all'art.10, dice: «L'assistente sociale riconosce le famiglie, nelle loro diverse e molteplici forme ed espressioni (...)». Un'espressione così formulata è certamente ambigua, ma in fondo non è detto che debba essere interpretata esclusivamente in chiave "arcobaleno". Tanti assistenti sociali hanno semplicemente pensato che il codice, parlando di diverse forme di famiglia, si riferisse a famiglie di tipo nucleare, esteso, monoparentale, eccetera, ma di certo non a quelle cosiddette "arcobaleno", che sono un'invenzione dell'ideologia Lgbt.

Inappropriato appare anche il richiamo alla Costituzione. Quando i padri costituenti scrissero l'art. 29 della nostra Carta costituzionale, a tutto potevano pensare tranne che a "famiglie" composte da persone dello stesso sesso. Tra l'altro affermarono non solo che la famiglia è «fondata sul matrimonio», ma prima ancora che è una «società naturale». Attestarono cioè che la famiglia esiste prima dello Stato, il quale non può far altro che riconoscere qualcosa che è già presente nella natura, nella società. Non basta pertanto una legge, o un articolo di un codice deontologico, per creare nuove forme di famiglia.

È inoltre opportuno richiamare un documento importante come la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, firmata a Roma nel 1950, più volte modificata (l'ultima nel 1994), senza tuttavia mai modificare l'art.12 sul “Diritto al matrimonio” che chiaramente afferma: «… l'uomo e la donna hanno diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano tale diritto». Anche in questo caso, nulla che rimandi a “matrimoni” tra persone dello stesso sesso. Ci si chiede, quindi, quali siano le basi normative (o le certezze scientifiche) che possano condurre ad una interpretazione in chiave Lgbt del citato art. 10 del Codice deontologico. Ha certamente ragione il presidente dell'Ordine lombardo degli assistenti sociali quando dice che il «riconoscimento dei diritti di ognuno non lede il diritto di nessuno», ma è altrettanto vero che non si possono assecondare quei gruppi che vorrebbero trasformare ogni desiderio in un “diritto civile”, dimenticandosi tra l'altro dell'imprescindibile contraltare rappresentato dai doveri.

I diritti, quelli veri, non sono quelli che vengono prodotti in base alle mode del momento, o che sono determinati dalla pressione ideologica di influenti lobby. I diritti autentici preesistono all'uomo e ne sono la principale garanzia di vita, di dignità, di libertà e di rispetto. Ai diritti autentici corrisponde un dovere di tutti: soprattutto quello di riconoscerli e rispettarli. È invece lecito aprire quantomeno una discussione su tutti quei “diritti” promossi per soddisfare e tentare di legittimare particolari scelte individuali, spesso svincolate da ogni norma morale in virtù di un non precisato principio di autodeterminazione.

L'auspicio è che all'interno degli ordini professionali possa aprirsi una vera fase di confronto, evitando di creare un clima di colpevolezza nei confronti di chi – esercitando il proprio diritto di critica – contesta l'opportunità che una istituzione ordinistica si schieri a sostegno di manifestazioni portatrici di visioni ideologiche non rappresentative del pensiero dell'intera comunità professionale.

Un assistente sociale