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VAL DI SUSA

Anni di piombo, un passato che non deve tornare

Un libro fa rivivere la Torino del terrorismo e il clima in cui maturò. Una lezione di attualità visto quel che sta accadendo in Val di Susa.

Attualità 08_07_2011
val susa
Due giovani giornalisti piuttosto lontani dalle mie idee culturali e politiche – Stefano Caselli, giornalista del «Fatto Quotidiano», e Davide Valentini, documentarista televisivo – hanno pubblicato un libro appassionante sulla Torino degli anni di piombo: «Anni spietati. Torino racconta violenza e terrorismo» (Laterza, Roma-Bari 2011). Si tratta di una cronaca serrata, che si legge tutta di un fiato, della Torino di Prima Linea e delle Brigate Rosse, dal 1967 al 1981.

Con qualche intervallo che aiuta a ricordare «come eravamo», dedicato alla Juventus, al Torino e alla nazionale di calcio, il libro descrive centinaia di attentati terroristici che creano nella città piemontese una vera cappa di piombo, fatta di giorni in cui tanti torinesi – davvero molti, perché non si prendono di mira solo le persone note ma anche dirigenti e quadri di azienda di medio livello, agenti della polizia e delle vigilanze private, studenti colpevoli solo di pensarla diversamente dai violenti o anche soltanto di studiare nella scuola sbagliata – si aggirano nella città con circospezione e guardandosi spesso alle spalle, sempre temendo un attentato, e di notti in cui si attende di leggere sul giornale il bollettino di guerra del mattino dopo per sapere chi è caduto e chi è rimasto in piedi.

Tanti morti ammazzati, tanti «gambizzati» – feriti alle gambe quando il terrorismo decide di non uccidere, ma spesso condanna all’invalidità o, colpendo l’arteria femorale, finisce per ammazzare lo stesso – rimangono nel libro come testimonianza dell’atroce stupidità dei terroristi, che qualche volta sbagliano obiettivo colpendo parenti del loro bersaglio, proprietari di bar «fascisti» che in realtà hanno la tessera comunista in tasca o anche semplici passanti. Ma dietro ogni storia c’è un morto, c’è una famiglia agli onori della cronaca per mezza giornata e poi subito abbandonata e dimenticata.

«Non c’eravamo, e ce lo siamo fatti raccontare», affermano gli autori, troppo giovani per avere vissuto gli anni di piombo ma capaci di ritrovare a tanti anni di distanza non solo testimoni, ma perfino fori di proiettile che tra i muri e l’asfalto spesso incredibilmente sono ancora lì. Mi ritrovo nella ricostruzione, perché io invece c’ero. Ero all’Università di Torino quando chi non era di sinistra entrava cercando di non farlo mai da solo e non sapendo veramente se sarebbe uscito. Ero a un isolato di distanza, all’uscita della sede delle facoltà umanistiche a Palazzo Nuovo, quando il 1° ottobre 1977 dal bar L’Angelo Azzurro salì il fumo acre dell’incendio che bruciò vivo un ragazzo mio coetaneo, Roberto Crescenzio (1955-1977), colpevole solo di essere entrato in un bar che, secondo un gruppo di facinorosi che si erano staccati da un corteo antifascista, era frequentato da giovani di destra (non era vero). C’ero più tardi, come giovane praticante procuratore legale che assisteva gli avvocati della Democrazia Cristiana, parte civile, al processo ai capi storici delle BR nella Caserma Lamarmora trasformata in aula bunker. Bruno Labate, la prima persona rapita dalle Brigate Rosse, era – ed è tuttora, giacché con l’aiuto della Provvidenza ne uscì vivo – un mio amico.

Sono grato agli autori per avere ricreato un clima che chi conosce la Torino di oggi ha difficoltà anche soltanto a immaginare, e per averne trasmesso la memoria ai giovani che non lo hanno vissuto. A una cronaca giornalistica non si può chiedere l’analisi di un trattato di sociologia, ma ci sono due aspetti che mancano e che rendono il quadro non del tutto completo.

Il primo è il vissuto di chi non era di sinistra: «fascisti», certo – un’etichetta all’epoca applicata piuttosto generosamente – ma anche cattolici che, a differenza dei pochi nomi evocati nel libro, dal cardinale Michele Pellegrino (1903-1986) a don Luigi Ciotti, con la sinistra non volevano «camminare insieme», secondo il titolo di una famosa e discussa lettera pastorale di quel cardinale, nel testo presentata con un po’ di esagerazione come capolavoro della dottrina sociale della Chiesa. Eppure c’eravamo anche noi, non solo come vittime delle violenze – che non mancarono – ma anche come protagonisti di una opposizione, diversa da quella «fascista», al marxismo imperante nella cultura e nell’università: un’opposizione che sembrava senza speranza ma che alla fine si ritagliò un suo spazio non piccolo, anche se i residui degli anni di piombo sono ancora ben presenti nella politica torinese.

Il secondo non detto del libro riguarda il tema controverso, ma che non può essere ignorato, del rapporto dei terroristi con l’Unione Sovietica e il suo impero. Non parlo qui soltanto delle relazioni dirette delle Brigate Rosse con servizi dell’Est – su cui ancora si discute accanitamente e su cui forse non saranno mai raggiunte certezze – ma di un retroterra di riferimento che in qualche modo e per qualcuno rendeva credibili gli assurdi proclami di chi, dopo avere ucciso una guardia giurata venuta dal Sud per guadagnarsi a Torino un povero stipendio, annunciava di avere assestato un colpo decisivo al capitalismo internazionale. È perché le stesse fumose e roboanti teorie ottocentesche continuavano a essere insegnate a Mosca che qualcuno poteva riprenderle a Torino e trasformarle in pallottole, senza che anche nelle fabbriche o nelle università tutti si accorgessero immediatamente che il re era nudo, e che i regimi comunisti erano solo, come avrebbe scritto nel 1984 il cardinale Joseph Ratzinger, «la vergogna del nostro tempo».

Diventa allora in qualche modo ambigua l’insistenza degli autori sul ruolo del Partito Comunista Italiano nello sconfiggere il terrorismo. Certo, il PCI prese le distanze dalle Brigate Rosse e alcuni dirigenti comunisti torinesi – tra cui Giuliano Ferrara, che oggi conosciamo in un’altra incarnazione – fecero molto per convincere gli operai che il terrorismo andava isolato. Ma nello stesso tempo il PCI manteneva amichevoli legami e riceveva, come oggi sappiamo, cospicui finanziamenti da quella stessa Unione Sovietica che forse sosteneva materialmente i terroristi e certamente li ispirava moralmente.

Il libro è attuale? Fino a qualche mese fa avrei detto di no. Uno sguardo a quanto sta succedendo in Val di Susa, a mezz’ora di automobile da Torino, rischia oggi invece di convincermi del contrario. Quello che succede in Val di Susa ha sempre meno a che fare con la discussione sull’alta velocità ferroviaria e sempre di più con la guerriglia, le bombe molotov, i poliziotti mandati all’ospedale in attesa di mandarli al cimitero come avveniva negli anni di piombo. Nonostante la simpatia degli autori per una parte di quel mondo, il testo ricostruisce in modo accurato il passaggio da cortei fondati su rivendicazioni specifiche – relative alle fabbriche e alle università – a un immaginario che vede dovunque e in modo paranoico il rischio del fascismo e del colpo di Stato, e a manifestazioni che perdono il collegamento con qualunque obiettivo concreto. Si va al corteo per il corteo, come si celebra l’arte per l’arte. E nel corteo per il corteo diventa centrale il servizio d’ordine, che vive però in un’ambiguità pericolosa fra missione dichiarata di controllare la violenza e tentazione implicita o esplicita di esercitarla. È dai servizi d’ordine dei cortei che nasce Prima Linea, anche se chi i cortei da cui partono assassini come quelli che bruciano il bar L’Angelo Azzurro li organizza a lungo si difende parlando di provocatori, d’infiltrati, di tragiche fatalità. Senza vedere che un certo tipo di corteo e di servizio d’ordine non può essere disgiunto dagli esiti violenti, pur mantenendo fermo che ogni responsabilità è sempre personale.

Il passato degli anni di piombo è diverso dal presente: non c’è più l’Unione Sovietica e non c’è più neppure il vecchio PCI. Eppure quando si scambia la costruzione di una ferrovia per un colpo di Stato, Silvio Berlusconi per Benito Mussolini (1883-1945) e i black bloc per eroi di resistenze immaginarie il passaggio dal corteo al terrorismo non sembra più così impossibile. Quel passato, che fu tremendo, non deve tornare, e l’unico modo per non farlo tornare è ricordarlo. Secondo la celebre frase del filosofo statunitense di origine spagnola George Santayana (1863-1952): chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo.