Anni '20, chiave di lettura del nostro (inquieto) presente
Anni Venti del XX secolo, Anni Venti del XXI secolo, ormai alle porte. A distanza di cento anni i due decenni appaiono più simili di quanto ci si aspetterebbe. Lo conferma una mostra a Palazzo Ducale di Genova.
I curatori della mostra di Genova sugli Anni Venti del Novecento, Matteo Fochessati e Gianni Franzone, hanno voluto far emergere le analogie tra quell’epoca e quella odierna illustrando, con opere di notevole impatto e valore, un clima di incertezza e di transizione, di latente violenza e insieme di attesa malinconica e inquieta, segnata dal mistero. Il nostro sguardo è catturato da un percorso espositivo a capitoli, che ci aiuta a riconoscerci in quei volti e in quei paesaggi sospesi, che tanto ci somigliano e che possiamo decifrare facilmente grazie alle preziose didascalie. Esposizione dunque adatta anche ai giovani che vivono oggi in un mondo per loro spesso incomprensibile, e che invece possono capire meglio grazie a questo spaccato del nostro passato.
Più che lo sguardo enigmatico del fanciullo dello Studio per il ritratto di Renato Gualino di Felice Casorati, scelto come manifesto della mostra per la sua sospensione ambigua che, a prima vista, ci farebbe piuttosto pensare a una figura femminile, ci sembra che il bassorilievo di apertura di Arturo Martini La tempesta, che raffigura un mare impetuoso su cui naviga perigliosamente una navicella, sintetizzi con chiarezza la condizione dell’uomo degli Anni Venti, che è anche la nostra. Infatti inadeguatezza, rassegnazione, sdoppiamento e distruzione di ogni certezza, così ben espresse anche dalle opere letterarie di quel tempo, come Gli Indifferenti di Moravia (1929) o Uno, nessuno e centomila di Pirandello (1925), non rappresentano forse tragicamente anche la condizione di chi si affaccia al ventennio del Duemila, con la differenza di un ancor più marcato nichilismo e senso di vuoto che colpiscono soprattutto i nostri ragazzi? Ecco perché ci stupisce la Maternità di Gino Severini che, pur nella tenerezza del gesto dell’allattamento, lascia trasparire un senso di turbamento, un presagio di morte (che poi colpirà davvero il figlio del pittore, che qui raffigura la moglie Janne col secondogenito). Ma la sezione che meglio “racconta” la condizione umana del primo Novecento, dunque anche la nostra, è quella intitolata Attese: sospensione malinconia inquietudine.
Sembra incredibile la scena del quadro di Virgilio Guidi In tram, con i gesti quotidiani di cura della madre per il suo neonato o della giovane che ripone l’uovo nel cestino, mentre di spalle un prete guarda davanti a sé verso un paesaggio immobile. I passeggeri di questa strana vettura, che pare in bilico nel vuoto, sono come bloccati, ogni personaggio è isolato dagli altri in una condizione di incomunicabilità che ci fa pensare ai moderni viaggiatori in metropolitana, il cui sguardo però è fisso sul cellulare, incapaci di una vera attesa. La presenza religiosa ritorna nella tela di Cagnaccio di San Pietro La sera (Il rosario) dove le due anziane popolane, sotto la protezione della figura della Madonna, recitano la preghiera mariana in un’atmosfera rarefatta ma estremamente realistica nei suoi dettagli e colori contrastanti. Desolazione e inquietudine, ma cariche di aspettativa.
Non può mancare, in una retrospettiva sugli Anni Venti, il tragico bilancio della prima guerra mondiale, con i suoi caduti e mutilati, drammaticamente rappresentato nel pietoso corteo de Le vedove di Galileo Chini, nell’emblematico interno rurale de La cena dei rimasti di Carlo Potente o nella devastazione de Il ritorno alla vita di Giovanni Battista Costantini, in cui le mutilazioni del corpo e dell’anima sono mostrate senza veli. Una guerra lontana ma i cui echi di morte risuonano nei sanguinosi conflitti contemporanei e nei sempre più frequenti atti di terrorismo, il nuovo volto dell’odio fratricida. Del resto il clima di violenza degli Anni Venti è proprio il frutto della paura e dell’orrore vissuti nella prima guerra mondiale. I curatori con sguardo moderno ce li presentano con livide visioni avveniristiche come La metropoli di Domingo Motta o la terribile Folla di Sexto Canegallo, che anticipano l’oppressione e la spersonalizzazione della società di massa.
Ma se nel “realismo magico” di quegli anni traspariva con forza una visionaria ricerca dell’oltre, il quadro “bloccato nel ghiaccio” di Tito Giacinto Fuga Noi viviamo nel mistero che abbiamo violato ci rivela che si aveva ancora coscienza del pericolo dell’audacia presuntuosa dell’uomo: la nostra orgogliosa autonomia scientifica sembra oggi averlo dimenticato. E perciò la tela di denuncia di Fuga rispecchia la condizione odierna molto di più dell’opera di Felice Carena Gli apostoli dove i seguaci di Gesù, addormentatisi prima del tragico arresto del Salvatore, sono dipinti in un sonno all’apparenza sereno, che non cancella l’attesa e il ricordo della Sua presenza, di cui invece noi siamo sempre più inconsapevoli. Gli uomini degli Anni Venti si trasformano addirittura in manichini o maschere, figure ricorrenti del primo Novecento sia nel teatro che nella pittura. Dai Sei personaggi in cerca di autore di Pirandello al solitario Manichino di Mario Sironi, dalla celebre Maschera di Mussolini di Adolfo Wildt alla sintesi plastica di Dux di Ernesto Thayaht, la maschera si trasforma in robot, aprendo così la prospettiva del manichino meccanizzato che tanto affascina e inquieta l’uomo contemporaneo, ormai dominato dall’intelligenza artificiale.
Non manca un approfondimento sul tema dell’Identità, anche nei suoi aspetti ambigui, che precorrono le confusioni di oggi. A partire dalla poco conosciuta esperienza della Fiume di D’Annunzio del 1919, si affacciano così allarmanti scenari di edonismo esasperato, una nuova visione della donna indipendente (lo era certamente Margherita Sarfatti, colta e libera amante di Mussolini), l’uso di sostanze stupefacenti, la possibilità di divorzio e la tolleranza verso i rapporti omosessuali. Ne abbiamo la conferma nei ritratti di corpi maschili nudi di De Pisis che certamente contrastavano con la creazione dell’“uomo nuovo” mussoliniano e ci trasmettono una venatura di malinconia, ben lontana dall’arrogante pretesa di autodefinizione sessuale odierna. Come si conclude la mostra? Con due sculture straordinarie di Arturo Martini: La Pisana e La lupa ferita. La prima, in pietra, armoniosamente addormentata; la seconda in bronzo, violentemente protesa in un urlo, dopo essere stata trafitta dalla freccia. Da una parte l’elemento femminile primigenio, fatto di una sensualità non pericolosa, dall’altra lo stesso elemento primordiale inteso però come animalità pura, ferinità incontenibile, che ci fa ripensare alla novella La lupa di Giovanni Verga. Due opere profondamente contrastanti, che documentano l’irrisolta comprensione della figura della donna: alterazione che si è ancor più accentuata nella società contemporanea, sempre più lontana dalla riscoperta della vera identità femminile. La mostra è così ricca e sfaccettata che consente di essere sfogliata come un libro in percorsi diversi, seguendo le “pagine” che più ci colpiscono e interrogano.