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i dati

Anche le statistiche sul gender svelano la sua natura ideologica

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Il 3% di un campione statistico di oltre 3000 adolescenti non si identifica in nessun sesso. Eppure i dati sulla disforia di genere sono immensamente più bassi. Il fenomeno del contagio tra pari a fini ideologici è usato per normalizzare una condizione che non è affatto diffusa. 

Vita e bioetica 12_07_2024

Continua con diabolica perseveranza il tentativo di distruggere gli ultimi brandelli di certezza (dopo quelle esistenziali, anche quelle biologiche) nelle nuove generazioni odierne.

Una ricerca nazionale sugli stili di vita degli adolescenti in Italia, condotta dal “Laboratorio adolescenza” e dall’Istituto di ricerca “Iard” con il supporto di Mediatyche Srl, riportata da un organo di informazione specialistica della scuola, ha messo a tema un dato riguardante l’identità di genere, introducendo per la prima volta l’opzione “non mi identifico” nella domanda sull’appartenenza di genere.
L’esito finale della indagine, che ha coinvolto 3.427 studenti tra i 13 e i 19 anni rappresentativi del territorio nazionale, attesta che il 3,6% del campione, oltre alle tradizionali e naturali categorie“maschio” e “femmina”, ha scelto questa terza opzione.

A detta dei promotori dello studio, “la richiesta di inserire questa terza possibilità di scelta era arrivata dagli stessi ragazzi attraverso i loro insegnanti” (ma quali e quanti ragazzi, e quali insegnanti …?), ma l’anno scorso non era stata accolta tenendo conto delle preoccupazioni espresse da alcuni dirigenti scolastici riguardo possibili “reazioni” da parte dei genitori. Rompendo gli indugi, tuttavia, quest’anno si è ritenuto di offrire questa “opzione di libertà” che cerca “di contribuire a far rientrare nella normalità una condizione esistente e diffusa”.

E proprio quest’ultima affermazione degli autori dell’indagine rivela il progetto tutto ideologico che ne sta all’origine: “far rientrare nella normalità” ciò che normale non è affatto, poiché l’identità sessuale non è un dato che si possa scegliere o, come si afferma oggi in molti documenti anche ufficiali, si “assegna”, ma una caratteristica biologica che attiene al patrimonio genetico della persona.
La risposta a una simile domanda, posta a un adolescente (che quindi è in piena fase di confusione, ribellione, opposizione), può avere tra l’altro mille motivazioni che poco o nulla hanno a che fare con l’identità sessuale in senso stretto. Che attendibilità potrà mai avere?

Storicamente, la “Disforia di Genere” o “Disturbo di Identità di Genere”, ha sempre riguardato solo una piccolissima percentuale della popolazione adulta e prevalentemente maschile ( 0.005-0.014%)  ed era caratterizzata da un esordio in età infantile.
Negli ultimi anni, tuttavia, con l’esplosione numerica di adolescenti che si sono rivolti alle cliniche di genere (nel 2018, la Tavistock Clinic di Londra ha registrato un aumento del 4400% di richieste da parte di ragazze rispetto al decennio precedente) è cambiato tutto.

Per comprendere questo fenomeno, occorre considerare un aspetto non irrilevante: l’aumento dei casi, la modificazione dell’età di esordio da infantile a puberale/adolescenziale e la frequente assenza di manifestazioni durante l’infanzia, si sono verificate prevalentemente in tutto il mondo occidentale. E proprio in considerazione dell’esponenziale e rapidissima diffusione del fenomeno fra gli adolescenti, numerosi studiosi hanno iniziato a valutare l’ipotesi del contagio tra pari e di quello sociale.
Nella psicologia dello sviluppo gli impatti dei pari e di altre influenze sociali sono proprio descritti utilizzando rispettivamente i termini “contagio tra pari” e “contagio sociale”.

Come ampiamente spiegato nel sito “Generazione ADche si occupa approfonditamente e con approccio scientifico del problema, il contagio tra pari, già riconosciuto con un fattore di rilievo nei disturbi alimentari, sta assumendo rilevanza anche rispetto al gender questioning: “Il contagio sociale è da sempre utilizzato per valutare la diffusione di effetti o comportamenti attraverso una popolazione e il consumo sempre più massiccio di internet da parte degli adolescenti – si pensi anche all’impatto della pandemia – rappresenterebbe un ulteriore acceleratore di tale contagio…Negli ultimi anni infatti si è verificato un forte aumento di contenuti on line sulle questioni transgender, anche con la comparsa sui principali social e su YouTube di centinaia di profili, con migliaia di followers, in cui giovani utenti raccontano e celebrano l’esperienza della transizione. Sono sempre più numerosi i professionisti che riconoscono un peso a tali forme di contagio.” Per non parlare poi, aggiungiamo noi, delle pubblicità e dei serial televisivi, che in ogni occasione bombardano subdolamente le menti e i cuori, per convincere che ogni opzione sessuale è lecita e di ugual valore.

È evidente, pertanto, che l’enfasi con cui si affermadi contribuire a far rientrare nella normalità una condizione esistente e diffusa”, è totalmente da irresponsabili. La massima propagazione del fenomeno proprio nel mondo occidentale, fortemente caratterizzato dal potere dei social e dei mass-media, condizionato ad ogni livello dalla narrazione mainstream, che mira a distruggere sempre di più i legami familiari e tutto ciò che rafforza l’identità personale e sociale, mostra con evidenza che si tratta di una situazione totalmente e intenzionalmente indotta, di cui si finisce per rendersi complici, sulla pelle dei nostri giovani e a discapito della loro felicità. Altro che “opzione di libertà”!