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IL CORPO DI AYLAN

Anche i bimbi defunti hanno diritto alla dignità

La foto del corpo del bambino siriano ritrovato sulla spiaggia di Bodrum, è ormai diventata un'icona. A prescindere dal dibattito politico che ha suscitato, da un punto di vista strettamente legale e deontologico, non avrebbe mai dovuto essere pubblicata. Si chiama "diritto alla dignità della memoria".

Cultura 07_09_2015
Aylan al Kurdi, il ritrovamento del corpo

Mentre le diplomazie internazionali e i governi europei cercano di trovare un’intesa sui flussi migratori, il mondo nei giorni scorsi è stato scosso dalla pubblicazione della foto del corpo, senza vita, di Aylan, bimbo siriano annegato in mare e ritrovato sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia. E’ stato scritto tutto e il contrario di tutto su quella foto, simbolo della disperazione di migliaia di profughi che scappano da Paesi dilaniati da guerre fratricide o che cercano semplicemente di costruirsi in Europa un futuro migliore e guardano al Mediterraneo come ad un eldorado.

La retorica buonista ha dato in queste ore il meglio di sé, quasi che quell’immagine disarmante di un corpicino abbandonato sul bagnasciuga dovesse inchiodare tutti i governi europei alle proprie responsabilità, che pure ci sono, quasi che quella commovente foto dovesse annientare ogni considerazione razionale sulla gestione dell’emergenza immigrati. Certamente Bruxelles e i governi dei singoli Stati del Vecchio Continente hanno commesso i loro errori di sottovalutazione e di disorganizzazione, ma la morte del povero Aylan non può certo essere imputata al presunto rifiuto dell’accoglienza da parte dell’Italia o degli altri Stati europei. Come hanno evidenziato autorevoli opinionisti e politologi internazionali, se la Turchia di Erdogan e le formazioni jihadiste non avessero gettato benzina sul fuoco alimentando la guerra in Siria e offrendo sponde ad Al Qaida, quel bimbo non sarebbe morto, semplicemente perché non sarebbe fuggito dal suo Stato d’origine.

Ma al di là delle polemiche politiche sulle responsabilità dei singoli Stati e sulla scarsa visione strategica da parte dell’Unione Europea in materia di immigrazione, c’è un altro aspetto che ha accalorato gli osservatori nazionali e stranieri: quello relativo all’eticità e alla correttezza deontologica del mondo dell’informazione nel mostrare quella foto del bimbo senza vita ripescato in Turchia.

Era giusto diffondere quella foto che, con la frenetica internettizzazione del giornalismo, si è propagata in rete in modo virale e incontrollato? Ci sono principi che vietano a chi fa informazione di diffondere contenuti di qualsiasi tipo che possano turbare la dignità delle persone e, a maggior ragione, dei minori?

Anzitutto va precisato che quella foto non è un “unicum” nella storia, anche recente, del giornalismo mondiale. In tantissimi telegiornali, e non da oggi, scorrono immagini dell’orrore della guerra in molti Stati dell’Africa o dell’Asia o dell’America Latina, così come volti di bimbi che muoiono di fame o di sete o di Aids o di malattie varie. Quelle testimonianze finiscono nei circuiti internazionali anche per lanciare moniti ai governanti affinché intervengano per evitare che altri bimbi innocenti possano rimanere vittime di atrocità efferate o di povertà e indigenza estreme.

E’ vero, quelle sono immagini massive, senza l’identificazione con nome e cognome dei soggetti inquadrati, ma appare evidente che qualcuno che eventualmente conoscesse i protagonisti dei reportage potrebbe agevolmente riconoscerli. Chi difende la scelta di diffondere la foto di Aylan ritiene che essa possa scuotere le coscienze, anche quelle più insensibili, e accrescere la consapevolezza della gravità di quanto sta accadendo in Siria e in altre zone calde del pianeta. Chi si dice invece dubbioso circa l’opportunità di far vedere quell’immagine teme che essa possa prestare il fianco a strumentalizzazioni.

Ma su un piano strettamente deontologico, è lecito pubblicare foto del genere? L’errore più diffuso nella categoria dei giornalisti è quello di pensare che i morti non abbiano diritti nei confronti del mondo dell’informazione. Il Garante della privacy, in anni passati, quando furono violati palesemente i diritti di minori vittime di tragedie, coniò una nuova espressione, “dignità della memoria”, per identificare un dovere inderogabile dei giornalisti nei confronti di soggetti non più in vita, ma comunque meritevoli di essere ricordati in situazioni non traumatiche e lesive della loro dignità.

Sia la Carta di Treviso che altre carte elaborate dai giornalisti come testimonianze di autodisciplina della categoria nel quotidiano esercizio del diritto di cronaca vietano di rendere identificabili i minori protagonisti di fatti di violenza o di morti tragiche. Il Codice di procedura penale e il Testo Unico sulla privacy aggiungono altri limiti giuridici in questo senso. I minori godono di una protezione rafforzata, che si somma a quella riconosciuta a tutti gli esseri umani, anche adulti, sia dalla Costituzione italiana che da numerose norme di legge.

L’umano sentimento di pietas nei confronti di bimbi come Aylan dovrebbe prevalere sempre e comunque sul diritto dei cittadini ad essere informati. Nel caso di Aylan quella foto non aggiunge nulla al dramma umano che si è consumato nelle acque turche. Sarebbe bastato riferire che tra le vittime c’erano anche bimbi di tre e cinque anni. 

Sul piano strettamente formale, del rispetto dei precetti giornalistici dettati a tutela dei diritti della personalità altrui, quell’immagine non avrebbe dovuto essere pubblicata. Ma si sa che quando le violazioni riguardano fenomeni di portata mondiale le differenti griglie di valori adottate da giornalisti di diversi Stati determinano scelte che possono risultare giuste e quasi naturali in uno Stato e deplorevoli o inopportune in un altro. Anzi, perfino all’interno dello stesso Paese, come dimostra l’Italia, la categoria dei giornalisti si è divisa, tanto quanto l’opinione pubblica in generale.