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POLITICA

Amministrative, l'astensionismo dei moderati

Un elettore su due non è andato a votare al ballottaggio delle amministrative. I moderati sono i maggiori delusi. Sorprese anche nel Pd che perde Livorno e Padova (vinte da M5S e Lega). Ma la vera crisi è nel centro-destra.

Politica 10_06_2014
Indecisi al voto

Gli esiti dei ballottaggi per le elezioni amministrative fotografano un Paese diviso a metà: un elettore su due non è andato a votare. Al primo turno si era raggiunto il 70% dei votanti, mentre domenica (e in Sicilia anche lunedì) a votare sono stati solo il 48,4% degli aventi diritto.

Sicuramente gli scandali Expo e Mose hanno alimentato la disaffezione e infoltito la pattuglia dell’antipolitica; il caldo torrido e le invitanti spiagge hanno indubbiamente contribuito a ridurre l’affluenza alle urne. Più in generale, però, la gente non vive più il voto come un diritto-dovere o come un’opportunità per incidere sulla gestione della cosa pubblica.

Soprattutto l’elettorato moderato, sia alle europee che alle amministrative, ha scelto di non andare a votare. Certamente ci sono stati anche ex elettori del centrodestra e soprattutto di Scelta civica e sigle di centro che il 25 maggio hanno dato fiducia a Renzi, ma restano una minoranza. La maggioranza del popolo moderato non si riconosce attualmente in alcuna delle proposte politiche in campo e ha deciso di non affidare più deleghe in bianco a un centrodestra rissoso e con un leader dimezzato.

Bisogna comunque prendere atto che l’”effetto Renzi” al ballottaggio si è attenuato. Come succedeva all’epoca dei trionfi del centrodestra, quando Berlusconi sembrava una calamita invincibile alle politiche ma non faceva sfracelli in sede locale, anche questa volta l’effetto trascinamento legato al premier non c’è stato.

Il Pd ha perso alcune roccaforti che sembravano inespugnabili. In primo luogo la simbolica Livorno, città natale del Partito comunista italiano, sempre amministrata dalla sinistra e ora diventata grillina (dopo Parma, il Movimento Cinque Stelle tenterà di costruire un laboratorio proprio nella regione del premier?). Sorprendenti anche le sconfitte a Perugia, che si colora di azzurro (nuovo sindaco un forzista di soli 35 anni), e a Padova, dove trionfa l’alleanza Lega-Forza Italia. Vittorie significative dei berlusconiani e dei loro alleati sia a Foggia che a Urbino che a Potenza.

Debacle del Biscione, invece, al Nord, in particolare in Lombardia, dove il Pd fa bottino quasi pieno e strappa al centrodestra la Pavia del promettente Cattaneo, Bergamo (che finisce nelle mani del renziano Giorgio Gori) e Cremona. Rilevante l’affermazione della sinistra anche in tradizionali feudi berlusconiani come la Brianza.

Tuttavia, in casa Pd c’è grande delusione per le sconfitte a Livorno e Padova. Nella cittadina toscana il candidato pentastellato ha raccolto i consensi dell’estrema sinistra ma anche di tutto il centrodestra e il Pd si è ritrovato isolato, con un candidato ex bersaniano che si era avvicinato al premier pur dichiarandosi “diversamente renziano”. A Padova il candidato era un bersaniano vicino a Zanonato, ex sindaco diventato ministro dello sviluppo economico nel governo Letta. Contro di lui un leghista che, grazie all’appoggio convinto di Forza Italia e delle altre anime del centrodestra, ha avuto la meglio.

Non è un caso che a perdere siano stati due candidati sindaci non vicinissimi al “cerchio magico” del premier. C’è già chi, nella vecchia guardia del Pd, accusa la segreteria nazionale di aver garantito solo un tiepido appoggio ai candidati sindaci di Livorno e Padova. Sabato prossimo, durante l’assemblea nazionale del partito, si discuterà anche di rapporti tra la vecchia e la nuova guardia. Nei giorni scorsi, le polemiche sulla questione morale avevano diviso i renziani dal resto del partito. Il manicheismo dei vertici del Pd vicini a Renzi rischia di creare fratture e di alimentare malumori nel popolo democratico e nei gruppi parlamentari, ancora dominati dalla vecchia guardia.

Quanto al centrodestra, rimane la necessità di un cambio di rotta. L’appannamento del carisma del suo leader, Berlusconi; le divisioni tra le sue varie anime, con personalismi esasperati e veti incrociati; l’assenza di meccanismi trasparenti di selezione della classe dirigente; l’eclissarsi di ogni progetto liberale di riforma dell’economia e dello Stato, che aveva consentito in passato al centrodestra di guadagnare la fiducia di imprenditori, commercianti, artigiani, professionisti, categorie in minima parte intercettate dal Pd e in larga parte semplicemente svogliate e distanti da ogni offerta politica; la palese incapacità di porsi come interlocutore credibile per il mondo cattolico e per il pianeta giovani: tutte queste componenti alimentano ombre sul futuro di un centrodestra ancora parcellizzato e litigioso. Senza un programma politico coerente e un ceto politico nuovo, il centrodestra resterà minoritario nel Paese e non riuscirà a recuperare i voti degli astenuti e dei delusi. I malumori interni a Forza Italia sono riesplosi proprio ieri, con le dichiarazioni di Fitto e Carfagna che invocano una rifondazione “a partire dal popolo”. Cadranno nel vuoto anche i loro appelli?