Alla balla del clima l'America non ha mai creduto
Malgrado le roboanti dichiarazioni delle amministrazioni Clinton e Obama gli Stati Uniti non hanno mai ratificato alcun accordo internazionale sui cambiamenti climatici. Addirittura sul Protocollo di Kyoto, l'allora vice-presidente Gore, grande sostenitore del Protocollo, fu sconfitto all'unanimità dal Senato.
Se gli Stati Uniti abbandonano l’Accordo di Parigi sul clima (la Conferenza di Parigi sui cambiamenti climatici, detta “COP 21”, del dicembre 2015), non cambia granché. La linea di Donald J. Trump resta cioè la stessa dei suoi tre predecessori, Barack Obama, George W. Bush jr. e Bill Clinton, governati dai quali gli Stati Uniti non hanno mai ratificato alcun accordo internazionale sui mutamenti ambientali.
Tutto, o gran parte, ha inizio nel 1970 con la creazione, negli Stati Uniti, dell’Environmental Protection Agency (EPA), l’ente governativo fortemente voluto dal presidente Richard M. Nixon (1913-1994), e con la fabbricazione semantica del concetto di “cambiamento climatico” inteso come «qualsiasi cambiamento significativo nelle misurazioni del clima perdurante per un periodo prolungato di tempo» (clicca qui). Il cambiamento climatico, cioè, è il cambiamento climatico. Prima dell’invenzione del concetto, il clima cambiava ? o non cambiava ?, ma nessuno lo chiamava così. Il fatto però è che l’EPA nacque per la preoccupazione inversa a quella di oggi: allora si gridava infatti al “raffreddamento globale”. Invertiti i poli, il “riscaldamento globale” è divenuto una minestra continuamente riscaldata.
L’apice è però del 1997, con la stipula del Protocollo di Kyoto. Kyoto sta in Giappone. È una grande città di 1,5 milioni di abitanti che ovviamente consumano e pertanto inquinano. Una centrale di “peccato”. Qui sorgono gli stabilimenti della Nintendo, regina dei videogiochi (è quella di “Super Mario Bros”), che praticamente è un’«istigazione a delinquere» istituzionalizzata, vista l’energia inquinante che serve a mantenere tutti i suoi posti di lavoro e a ricaricare le consolle dei ragazzetti videodipendenti. Fu così che, durante la Conferenza delle Parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, detta “COP3”, 180 Paesi s’impegnarono a ridurre nel periodo 2008-2011 le emissioni di agenti inquinanti non meno dell’8,65% dei livelli registrati nel 1985. Perché quell’anno? Perché da qualche parte bisogna pure iniziare. Come si fa con quelle statistiche su terremoti o uragani che servono a distribuire allegramente colpe e assoluzioni ogni qualvolta si verifica un cataclisma, ma che in realtà monitorano lo storico soltanto da quando si è iniziato a misurare il reale con gli strumenti odierni, speculando cioè su archi temporali troppo brevi e sempre aleatori.
A Kyoto la sentenza senz’appello colpì il biossido di carbonio e altri cinque gas responsabili del cosiddetto “effetto-serra”: metano, ossido di azoto, idrofluorocarburi, perfluorocarburi ed esafluoruro di zolfo. Tutte cose, però, che, di per sé, fanno benissimo alla vita sulla Terra. Il biossido di carbonio, infatti, è l’anidride carbonica (il CO2), indispensabile, nella misura corretta, per la fotosintesi delle piante, dunque, per paradossale che possa sembrare, strumento imprescindibile dell’ossigenazione del pianeta. Quanto all’«effetto-serra», quello che trattiene nell’atmosfera una parte del calore irraggiato dal Sole, benedetto il Cielo perché esiste: è infatti il principale termoregolatore della Terra, esempio charmant del fine-tuning che regola il nostro pianeta come un orologino svizzero. Se fosse poco, boccheggeremmo nel deserto come su Marte; se fosse eccessivo, asfissieremmo nell’umido come su Venere.
Il Protocollo di Kyoto è quindi entrato in vigore il 16 febbraio 2005. Nel tempo, ai primi firmatari se ne sono uniti altri. Ma l’obiettivo non è stato raggiunto e così, nel dicembre 2010, la Conferenza di Doha, in Qatar, ha esteso al 2020 il tempo utile per raggiungerne gli obiettivi.
Ora, quando a Kyoto si firmò (1997) alla Casa Bianca sedeva Bill Clinton e al suo fianco sfilava il re di tutti gli ambientalisti politici, il vicepresidente Al Gore. Ciononostante, il Congresso federale non ha mai ratificato l’accordo, che dunque non ha mai vincolato gli Stati Uniti. Anzi, in quello stesso anno il Senato americano votò all’unanimità, quindi Democratici compresi, la Risoluzione Byrd-Hagel, bipartisan, approntata dai senatori Chuck Hagel, Repubblicano, e Robert Byrd, Democratico, stabilendo che gli Stati Uniti non dovevano nemmeno figurare tra i firmatari di Kyoto. Quando invece Kyoto entrò in vigore, alla Casa Bianca era subentrato George W. Bush jr., ma né lui, fiero avversario del Protocollo, né il suo successore Barack Obama, entusiasta del Protocollo, hanno mai pensato di sottoporre il trattato alla ratifica parlamentare necessaria a renderlo cogente.
Tra la firma e l’entrata in vigore di Kyoto, due senatori americani, quel Repubblicano strano che è John McCain e Joseph Lieberman, Democratico indipendente, hanno cercato per ben due volte, nell’ottobre 2003 e nel giugno 2005, di far approvare un pacchetto di tre leggi denominate “Climate Stewardship Acts” miranti a fissare un tetto di sostenibilità alla quantità di “gas serra” emessi nell’aria, da far rispettare attraverso incentivi (il sistema detto “cap and trade”), ma tutte e due le volte la misura è stata bocciata.
Con Obama in sella l’ambientalismo di governo ha certo ripreso fiato, anche attraverso l’istituzione, nel 2009, dell’Ufficio della Casa Bianca per la politica sull’energia e sui cambiamenti climatici; ma, una dopo l’altra, le iniziative di legge caldeggiate (è il caso di dirlo) da Obama si sono tutte arenate al Senato. La retorica certo non è mancata. Le proposte faraoniche nemmeno, per esempio l’impegno assunto al Climate Change Summit svoltosi a Copenaghen nel 2009 di ridurre le emissioni serra del 17% rispetto ai livelli del 2005 entro il 2020, del 42% entro il 2030 e addirittura dell’83% entro il 2050. Ma l’unico elemento che avrebbe davvero fatto svoltare il Paese, la ratifica di Kyoto, è rimasto lettera morta. Ipocrita, quindi, dare per l’ennesima volta a Trump del furfante perché esce da quegli Accordi di Parigi che sono solo una pacca sulle spalle al già vuoto “spirito di Kyoto”.