"All lives matter", il caso di Arbery smonta gli stereotipi
“All lives matter”, tutte le vite contano. Questo è stato il primissimo commento di Marcus Arbery alla sentenza di condanna dei tre assassini di suo figlio, Ahmaud, il giovane afro-americano ucciso a Brunswick, in Georgia il 23 febbraio 2020. Il processo e le condanne dimostrano che il razzismo negli Usa non è sistemico, nemmeno nel Sud
“All lives matter”, tutte le vite contano. Questo è stato il primissimo commento di Marcus Arbery alla sentenza di condanna dei tre assassini di suo figlio, Ahmaud, il giovane afro-americano ucciso a Brunswick, in Georgia (Stato del Sud degli Usa) il 23 febbraio 2020. Il processo e le condanne sono stati esemplari dimostrazioni che quello degli Stati Uniti non è un sistema razzista. E la famiglia della vittima si è tenuta ben alla larga dalla strumentalizzazione politica.
Ahmaud Arbery, noto come il “jogger nero”, perché stava correndo quando è stato ucciso, ha avuto la sfortuna di essere sospettato di furto. Tre persone che abitavano dove lui solitamente passava, lo stavano tenendo d’occhio da un po’. Gregory McMichael, un ex poliziotto e investigatore presso l’ufficio del procuratore distrettuale, sospettava che Arbery fosse un ladro seriale. Lo si vedeva spesso entrare nel terreno di un cantiere, una casa in costruzione. Benché non fosse l’unico a farlo. Era anche convinto che avesse rubato dell’attrezzatura dalla barca del proprietario della casa in costruzione. Dodici giorni prima del fatto di sangue, Travis McMichael, il figlio di Gregory, afferma di aver incontrato Arbery e di essere stato insultato e minacciato, sempre nel cantiere conteso. O almeno così ha dichiarato durante il processo. Fatto sta che, il 23 febbraio dell’anno scorso, Gregory McMichael ha scatenato la caccia. Si è messo ad inseguire il presunto ladro, assieme al figlio Travis e al vicino di casa William Bryan, per eseguire un “arresto da cittadini”, permesso dalla legge locale.
Nel corso del processo Travis McMichael ha affermato di aver voluto più volte “solo parlare” con l’uomo inseguito, ma questo si è sempre rifiutato di rispondere ed ha cercato di fuggire. Dopo cinque minuti di inseguimento, messo all’angolo, Ahmaud Arbery si è trovato faccia a faccia con i tre uomini, con almeno uno dei tre, Travis McMichael, che gli puntava addosso il fucile a pompa. Una mossa sbagliata al momento sbagliato, oppure un atteggiamento giudicato troppo “minaccioso” e Travis ha sparato per uccidere.
La giuria, composta quasi interamente da bianchi (11 su 12 giurati), non ha riconosciuto la legittima difesa. Sono i tre inseguitori che hanno aggredito Ahmaud Arbery e non viceversa. Hanno abusato della facoltà di arrestare, da cittadini, un altro cittadino, hanno usato la forza in modo sproporzionato, hanno ucciso un uomo disarmato che non aveva né borse, né zaini, né alcun altro modo per celare armi. Per di più, i loro sospetti si sono rivelati infondati. Non è stata trovata alcuna refurtiva presso la vittima e niente prova che fosse un ladro. Travis McMichael è stato condannato per omicidio volontario, suo padre Gregory e il vicino di casa Bryan per concorso in omicidio.
Il caso di Brusnwick è appunto una dimostrazione che il razzismo, negli Usa, non è sistemico. Una giuria quasi interamente bianca che deve giudicare tre bianchi che uccidono un nero, in uno Stato del profondo Sud: poteva essere lo scenario perfetto per un verdetto condizionato dai pregiudizi razziali. Invece no, senza troppe difficoltà sono stati riconosciuti i colpevoli. È la dimostrazione che la giustizia esercitata con metodi da linciaggio non è ammessa nemmeno nel nuovo mondo. È ammessa la legittima difesa, i cittadini hanno più libertà di fermare un criminale, ma chi commette abusi, passando dalla parte dell’aggressore, non resta impunito. Infine il comportamento della famiglia della vittima smentisce la polarizzazione destra-sinistra che normalmente caratterizza questi casi e le loro conseguenze. La madre e il padre hanno incontrato, a suo tempo, il presidente Donald Trump. Successivamente, la famiglia della vittima, ha dichiarato che l’ex inquilino della Casa Bianca (giudicato “razzista” dai media a lui ostili) si fosse dimostrato molto sensibile al loro caso e a quello di famiglie che versavano in condizioni simili e in attesa di giustizia. Trump stesso, dopo l’incontro con la madre di Ahmaud, Wanda Cooper-Jones, aveva scritto di lei: “Una grande donna. Suo figlio starà guardandola dal cielo, fiero di questa magnifica e amorevole mamma!”. Tutte le vite contano, insomma. Considerazione che parrebbe banale, ma che è merce rara in un clima di lotta identitaria.