Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Federico di Utrecht a cura di Ermes Dovico

STORIA

Aleksandr Solzenicyn e il cammino dell’"io" alla verità

Esce anche in italiano Ama
la rivoluzione!
, romanzo incompiuto e autobiografico scritto nel 1948 mentre l'autore era internato in un campo
di lavoro. Più che letteratura
è storia della Madre Russia.

Cultura 17_03_2012
Stalin e il Gulag

 

Vedendo tutta Mosca riscuotersi dal grigio torpore e accalcarsi intorno alle edicole per strappare una copia di «quella rivista dov’è scritta la verità» (nel novembre 1962 il prestigioso mensile Novyj mir pubblicava Una giornata di Ivan Denisovic, il primo racconto sui lager), giustamente Sergej Averincev osservava: «Questa ormai non è più solo storia della letteratura - è storia della Russia». La grande letteratura russa, del resto, non si è mai concepita solo come un fenomeno letterario, si è sempre sentita investita di una vocazione morale e pedagogica nel senso più elevato della parola, e così è sempre stata recepita dai suoi lettori, che potevano recitare senza esitazioni, come preghiere, accanto ai salmi le poesie del Dottor Zivago.

Il romanzo incompiuto di Solzenicyn Ama la rivoluzione!, finora inedito in Italia ma pubblicato ora dalla milanese Jaca Book, per la cura di Sergio Rapetti, a oltre cinquant’anni dalla sua composizione, ripropone questa grande lezione registrando, sullo sfondo del gigantesco dramma della seconda guerra mondiale, lo svolgersi di un altro dramma: il faticoso ma inarrestabile cammino dell’«io» umano verso la scoperta della verità, passando dagli slogan altisonanti e vacui dell’utopia («La vita era bellissima. In primo luogo perché era sottomessa alla volontà di Nerzin che poteva disporne a suo piacimento [...]. Era cresciuto nella convinzione che ogni uomo debba forgiare da sé il proprio destino»), al terreno aspro e accidentato, ma solido, della realtà («[…] quello sguardo di migliaia, inflessibile, cupamente testardo ma che senz’altro racchiudeva un segreto, un segreto senza il quale sarebbe stato impossibile vivere»). È il cammino percorso da un intero popolo, di cui Solženicyn ha sempre avvertito la responsabilità di custodire la memoria e la coscienza, e insieme il suo stesso cammino personale, tracciato attraverso la figura del protagonista, Gleb Nerzin (lo stesso nome prenderà il protagonista nel successivo, maturo romanzo Il primo cerchio).

Ama la rivoluzione!, presentato alla Biblioteca Ambrosiana l’8 marzo scorso alla presenza di Ignat Solženicyn, uno dei figli dello scrittore, narra la vicenda di un giovane intellettuale sorpreso dallo scoppio della guerra nelle aule universitarie di Mosca, impaziente di combattere in prima linea per aggiudicare alla patria la vittoria finale e portare la rivoluzione in tutto il mondo, ma costretto - in quanto riformato alla visita medica - a una poco esaltante marcia verso le retrovie in un reparto di salmeria («il contingente degli invalidi»).

È un’opera profondamente autobiografica, scritta da Solženicyn nel 1948 mentre era internato in un campo di lavoro per scienziati, la saraska di Marfino, fortunosamente messa per iscritto (a differenza di altre opere dello stesso periodo, in particolare il poema La stradina, 8mila versi serbati per anni dall’autore nella memoria), e salvata da una coraggiosa funzionaria del lager che gliel’avrebbe restituita sei anni dopo. Un’opera in cui l’autore fissa il mutamento che sta avvenendo in lui, intellettuale comunista e brillante ufficiale arrestato durante la guerra, costretto dalle circostanze a rivedere tutte le proprie convinzioni.

L’ingloriosa marcia di Gleb, che cerca disperatamente, lungo tutta la narrazione, di mutarne la rotta per inseguire i suoi ideali, è in realtà il percorso della vita, che si incarica, per Nerzin come per Solzenicyn, di liberare l’intellettuale entusiasta, confidente nel «giovane paese dalla rossa bandiera», dalle sue utopistiche convinzioni. È un processo liberatorio che avviene secondo un duplice registro: il tribunale della storia e il tribunale della coscienza qui si uniscono per ricondurre la persona a se stessa. A questo conduce lo scontro di Nerzin con la burocrazia, la miopia e gli interessi individuali che soppiantano nel sistema i luminosi ideali del socialismo e, più in generale, ogni idea di giustizia e di bene comune («viveva e soffriva il tracollo sempre più evidente dell’Armata Rossa come la malattia mortale di un congiunto… A quale scopo vivere se ciò che di più luminoso era apparso nella storia dell’umanità veniva soffocato?»); a questo conduce il suo scontro con l’atrocità delle repressioni, della vita ai lavori forzati e in deportazione attraverso i racconti dei nuovi vicini di casa, i Diomidov, che squarciano un velo su una realtà apparentemente remota ma in realtà così prossima da sfiorare il protagonista e la moglie.

Lo sguardo dell’ex detenuto Illarion Feognostovic Diomidov vede con implacabile lucidità un aspetto della vita che il brillante intellettuale Gleb Nerzin ignora, persino in sé, vale a dire l’atrofia causata nel cuore umano dall’ideologia. Diomidov, che «aveva imparato da tempo che a quelli della loro generazione, che considerano una virtù civica denunciare qualcuno all’NKVD, lui non aveva niente da dire», «vedeva Gleb da parte a parte e ne comprendeva i moti dell’animo: idealismo, nessuna pietà per se stesso e per gli altri, lontani e vicini. Sarebbe stato folle da parte sua cercare di far cambiare idea a questo giovane ardimentoso».

Una generazione entusiasta, idealista, impetuosa nel proprio amore per l’umanità ma incapace di amare, di provare pietà per l’altro nella sua concretezza, perfino nella vita privata, nei sentimenti più intimi e familiari: «La caparbietà della sua sete di sacrificio più che illuminare Gleb lo ottenebrava, e toglieva ogni spazio alla sua vita personale, perfino l’intimità con la moglie non gli dava più gioia e non gli passava neanche per la testa il pensiero che quei giorni insieme potessero risultare, da un momento all’altro, gli ultimi».

Eppure Diomidov confidandogli il suo passato osa compiere un passo arrischiato, sconsiderato agli occhi di qualunque reduce dei campi, scommette sull’umanità di Gleb («le lunghe sofferenze maturano anche un intuito assolutamente irrazionale per il cuore del prossimo»), e il suo racconto comincia a corrodere le difese dell’ideologia. Il punto d’arrivo è lì, nel cuore - qui si gioca la battaglia ultima della storia. Il cuore che non conosce generalizzazioni, ma la concretezza della creatura che ti si para davanti agli occhi. Avviene il miracolo, in Gleb Neržin scocca la scintilla della pietà. Una pietà che si dilata ad abbracciare «tutto e tutti», come canta la liturgia della Chiesa d’Oriente, che anticipa il «primo mattino della creazione» cantato da Solzenicyn in Reparto cancro. «Ad un tratto - Nerzin era stato cacciato fuori dall’izba calda, in una notte gelida e piovosa, ad abbeverare i cavalli, lui che non aveva alcuna dimestichezza con essi, non sapeva neppure montarli, - per la prima volta in quel suo tempo carovaniero vide nei grandi animali non i simboli, dai musi bavosi, del crollo di tutte le sue mirabolanti speranze di entrare in artiglieria, bensì delle buone creature dalla vita infinitamente più dura di quella degli umani». E porta i cavalli all’abbeveratoio, a gruppi, per buona parte della notte, «meravigliandosi per primo del tono carezzevole della sua voce».