Al Shabaab, basta la parola per finire uccisi o in carcere
Ci sono Paesi in cui basta una parola per finire in carcere o venire ammazzati. Come in Somalia dove al Shabaab, il movimento jihadista legato ad al Qaida ha ucciso decine di giornalisti. Per questo il governo ha proibito l’uso del termine “al Shabaab” (“la gioventù”), pena l’arresto. Insomma, non c'è scampo per i reporter.
Ogni anno "Reporter sans frontières" pubblica l’Indice della libertà di stampa: una classifica che misura il livello complessivo delle violazioni della libertà di informazione stato per Stato e, nel confronto con gli anni precedenti, valuta i progressi e i peggioramenti in corso. L’indice 2015, relativo al 2014, rivela un drastico declino della libertà di stampa – meno 8% – in tutti i Continenti. Due terzi dei 180 Stati esaminati mostrano un aumento dei limiti posti alla libertà di stampa, con performance particolarmente negative in Timor-Leste, Andorra e Italia (scese di 27, 26 e 24 posizioni rispetto all’indice precedente).
In certi stati censura e sanzioni sono imposti dai governi. Succede nella Corea del Nord e in Eritrea, i due Paesi governati dalle peggiori dittature del pianeta, che figurano ultimi nell’Indice della libertà di stampa 2015. In altri Stati il pericolo è rappresentato da movimenti antigovernativi e gruppi jihadisti. Steven Sotloff e James Foley sono tra i giornalisti uccisi dallo Stato Islamico di al Baghdadi nel 2014. In Libia, secondo l’organizzazione non governativa Human Right Watch, dalla metà del 2013 alla fine del 2014 si sono verificati 91 casi di minacce e aggressioni, 30 giornalisti sono stati rapiti, 8 sono stati uccisi e 26 sedi di giornali ed emittenti radiofoniche e televisive sono state attaccate.
Poi ci sono Stati in cui i giornalisti devono temere e guardarsi sia dai governi che dai gruppi armati. È il caso della Somalia dove al Shabaab, il movimento jihadista legato ad al Qaida fondato nel 2006, ha ucciso 18 giornalisti nel 2012, sette nel 2013 e cinque nel 2014. Se almeno il numero dei giornalisti vittime di attentati è diminuito, per contro sono aumentati nel frattempo gli attacchi del governo ai mass media indipendenti allo scopo di imbavagliare l’informazione libera e le voci critiche. Chiudere in carcere i giornalisti, anche senza accuse specifiche, per poi rilasciarli dopo qualche tempo, è diventato per il governo somalo un mezzo ordinario di intimidazione. Nel 2014 sono stati arrestati 47 giornalisti e sono state attaccate e chiuse dalle forze dell’ordine non meno di cinque emittenti radiofoniche e televisive. Una di queste è radio Shabelle, la più importante radio indipendente del Paese. Nell’agosto del 2014, in seguito a un reportage critico nei confronti di una operazione militare contro un leader di al Shabaab, condotta dall’esercito senza curarsi di risparmiare i civili, le forze di sicurezza hanno fatto irruzione nella sede dell’emittente, hanno distrutto macchinari e arredi e hanno arrestato 21 persone tra giornalisti e tecnici, con accuse di vario genere, inclusa l’istigazione alla violenza.
Si può quindi immaginare con quanta preoccupazione l’ambiente giornalistico somalo abbia accolto il 4 maggio l’ordine emanato dal governo a tutti i mass media di smettere di usare il nome “al Shabaab” (“la gioventù”, in arabo) con cui il gruppo somalo islamista è universalmente noto. Le autorità vogliono che d’ora in poi al Shabaab venga chiamato Ugus, acronimo di “il gruppo che massacra i Somali”, in lingua somala. Come se non avessero già abbastanza problemi, adesso i giornalisti si trovano quindi in una situazione senza scampo. Se obbediscono all’ordine del governo sanno di incorrere nelle ire di al Shabaab, ma se rifiutano di seguire le direttive governative si devono preparare ad affrontarne le conseguenze in termini di sanzioni e peggio ancora. Il primo giornalista somalo a cadere nel 2015 è stato Daud ali Omar, reporter di una radio indipendente, ucciso insieme alla moglie a Mogadiscio il 30 aprile, da al Shabaab: anzi, no, da Ugus.