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SANREMO

Al Festival delle banalità trionfa il vuoto musicale

La canzone popolare italiana si impoverisce con il passare degli anni, per capirlo basta scorrere i titoli che han vinto sul palco dell'Ariston.

Attualità 17_02_2012
Ariston Proviamo a fare un esperimento. “Chiamami ancora amore”, “Per tutte le volte che”, “La forza mia”, “Colpo di fulmine”. Di cosa stiamo parlando? I più intuitivi – ma crediamo pochi – avranno inteso che si tratta di canzoni. Di quali canzoni? Una cerchia ancor più ristretta di lettori darà risposta esatta dicendo che sono le canzoni che hanno vinto le ultime cinque edizioni del Festival di Sanremo. Infine la prova più impegnativa: coloro che si ricordano che queste canzoni sono quelle vincitrici tentino di canticchiarne il motivo principale. Buio assoluto.

Diamo un’altra chance: “Grazie dei fiori”, “Vola colomba”, “Nel blu dipinto di blu”, “Non ho l’età”, “Chi non lavora non fa l’amore”, “Adesso tu”, “Si può dare di più”, “Perdere l’amore”. Ora la musica, è proprio il caso di dirlo, cambia: di queste canzoni, non tanto recenti e vincitrici del festival in anni differenti, più o meno tutti ricordiamo il motivetto. Come mai?

Molte sono le ragioni, ma dal punto di vista musicale potremmo dire in sintesi che la musica popolare si sta sempre più impoverendo. Anche nel passato ovviamente ci sono stati brani che hanno vinto a Sanremo ma presto sono caduti nell’oblio. Però il trend ci pare che vada nella direzione del pauperismo musicale. Non tanto per mancanza di talenti o di idee ma per esigenze commerciali. Più un prodotto è facile da usare più vende. Più una musica è sofisticata nei testi e nella musica più è difficile da ascoltare e meno è facile da smerciare. Invece l’intento odierno è quello di confezionare canzoni di basso peso specifico musicale: musica leggera appunto, così leggera che però è facile perderla per le strade della memoria.

Lo scotto dunque sta nel fatto che il prodotto dura sempre meno:
la sua deperibilità è direttamente proporzionale alla pochezza del suo valore artistico. Più fruitori forse, ma per un tempo minore. E così in testa alla classifica ci si sta sempre meno: come d’autunno sugli alberi le foglie, per dirla alla Ungaretti.

Nel tempo stiamo assistendo ad un candeggiamento delle canzoni fatto a più livelli.
Quello melodico: il cosiddetto ritornello – a patto che esista – è sempre più breve. Poche note altrimenti l’ascoltatore si stanca. Anzi – e Vasco è un alfiere in questo – il parlato la fa da padroni (la cantillazione medioevale era ben altra cosa). Oppure vocali tenute lunghe tanto che paiono sirene della polizia. L’armonia, cioè la lettura verticale del testo musicale, gli incastri tra le note, gira annoiata di continuo sugli stessi accordi. Il ritmo è sempre regolarissimo: bandite le sincopi e i gruppi irregolari. I testi infine sfiorano la banalità perché devono aderire ai luoghi comuni, al percepito della massa. Il tutto sa di stantio, già ascoltato e assolutamente prevedibile. Ovvio, stiamo generalizzando, le eccezioni non mancano, ma come diceva Aristotele una rondine non fa primavera e il panorama della musica pop italiana è sempre più immerso nel gelo invernale.

La fruizione immediata e facile è quindi il logos ispiratore non tanto degli autori ma sicuramente dei produttori.
Va da sé che anche i contenuti trasmessi siano elementari: più il contenuto è alto, profondo, più la forma espressiva deve adeguarsi, dovendo lei stessa diventare profonda e quindi complessa. Ma ciò sarebbe un’eresia perché ostacolerebbe la circolazione della canzone, già assai compromessa dalla possibilità di scaricarla gratuitamente via web.

Tra i tanti danni di questa operazione commerciale c’è l’imbarbarimento del gusto musicale
di chi sta dall’altra parte degli altoparlanti. Il senso estetico nei ragazzi e giovani è infimo: la musica, seppur quella pop, non deve parlare più al cuore o alla testa ma ai sensi. Caso paradigmatico è la house music – che di domestico non ha proprio nulla – e soprattutto la musica techno. Il piacere estetico è sostituito da quello sensoriale: volumi altissimi, molti bassi – indispensabili per far vibrare la cassa toracica – solo ritmo martellante e costante (omoritmo), ripetuto all’infinito come una mantra che prova straniamento e volontario ottundimento. La musica più che sentirla con le orecchie ne devi essere investito fisicamente. Non devi capirla – non c’è nulla da comprendere – ma solo viverla, percepirla con i sensi, drogarti di note.

Ovvio, le canzoni del Festival a confronto della techno paiono la Nona di Beethoven, però sotto sotto il virus dell’appiattimento verso il basso è il medesimo.

Postilla: proprio a proposito di Beethoven anche lui era obbligato a scrivere musica commerciale per campare. Odiava quei pezzi tanto che aveva rifiutato di assegnare loro un numero di opera (il famoso “Op.”). Già, robaccia di nessun valore. Robaccia come “Per Elisa”.