Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi

APPROPRIAZIONE INDEBITA

Al Cairo il telefono della giunta squilla a vuoto (e favorisce gli islamisti)

Ecco cosa è accaduto lo scorso fine-settimana durante l’assalto all’ambasciata di Israele in Egitto.
Il ruolo del presidente americano Barack Obama e la visita del premier turco Recep Tayyip Erdogan.

Assalto all'ambasciata israeliana in Egitto

 

Il maggiore giornale egiziano, al Ahram, paragona l’assalto all’ambasciata d’Israele alla caduta del Muro di Berlino. Hamdeen Sabahi, candidato alla presidenza egiziana, esulta dicendo che "la bandiera sionista aveva inquinato l’aria egiziana per trent’anni". Il quotidiano israeliano Israel Hayom lo chiama "l'esodo": mai prima d’ora l’intero corpo diplomatico israeliano, ottanta persone fra ambasciatore, assistenti e guardie di sicurezza, era stato costretto ad abbandonare il Cairo.

La notizia politica più importante dell’assalto è che senza l’intervento del presidente americano Barack Obama ci sarebbe stata una strage di israeliani. Durante la crisi il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, e il ministro della Difesa, Ehud Barak, hanno tentato di telefonare al feldmaresciallo Mohammed Tantawi, l’ufficiale di grado più alto dopo la caduta di Mubarak, per farlo intervenire. La versione ufficiale dice che Tantawi "non si trovava". La verità è che non ha accettato la telefonata israeliana. "Farò quello che posso", ha detto Obama a Netanyahu, riuscendo a costringere gli egiziani a creare una via di fuga per gli israeliani. L’ex generale egiziano Sameh Seif ha detto che l’assalto è colpa della casta militare che governa il paese. E il sospetto che la giunta abbia lasciato mano libera ai manifestanti è forte.
Il governatore di Giza, dove sorge l’ambasciata, ha promesso alla folla che non costruirà un altro muro a protezione degli israeliani. La sicurezza attorno al diciottesimo piano era altissima. Non erano ammessi telefonini, c’erano metal detector, telecamere e guardie armate. Un protocollo voleva che gli israeliani, prima di abbandonare le proprie case diretti all’ambasciata, dovessero accertarsi di non essere seguiti e cambiare spesso il loro itinerario.

Alle cinque del pomeriggio di venerdì migliaia di egiziani si ritrovano in piazza Tahrir. L’ordine è di marciare sull’ambasciata israeliana. Giorni prima un influente leader religioso dei Fratelli musulmani, Salah Sultan, aveva emesso una fatwa che legittimava l’uccisione dell’ambasciatore, Yitzhak Levanon.

Salah Sultan aveva accusato l’ambasciata di “corrompere” i giovani con prodotti per capelli che ledono le capacità riproduttive. La vice Guida suprema della Fratellanza, Mahmoud Ezzat, aveva accusato il personale israeliano di essere “spie”. “Rappresentante sionista, vattene o muori”, recitava uno dei volantini distribuiti dalla Fratellanza davanti all’ambasciata.

Ieri, mentre arrivava al Cairo il premier turco Recep Tayyip Erdogan, un comunicato della potente confraternita islamica ha giustificato l’attacco, dicendo che l’assalto all’ambasciata è stata “una reazione legittima”. I Fratelli musulmani hanno chiesto una “revisione” del trattato di Camp David. “Israele dovrebbe aver capito il messaggio, l’Egitto è cambiato, la regione è cambiata”, si legge in un comunicato dei Fratelli musulmani. E ancora: “E’ stata una esplosione di sentimento nazionale nel cuore degli egiziani”. Venerdì sera dentro all’ambasciata, chiusa per Shabbat, c’erano sei guardie israeliane. Alle sei i manifestanti abbattono il muro di tre metri a difesa dell’edificio al grido di “Allah Akbar” e “Sinai Sinai”. A mezzanotte da Israele arriva l’ordine di evacuare il personale. I sei israeliani restano chiusi in una “stanza sicura” dell’ambasciata, dietro a una porta di ferro. Alcuni manifestanti riescono a entrare nell’ambasciata, rubano centinaia di documenti di proprietà d’Israele e strappano la bandiera ebraica. Da Gerusalemme Netanyahu, Barak e il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman seguono il raid dalle telecamere. Il capo del Mossad, Tamir Pardo, invia un Boeing 707 al Cairo per portare in salvo tutti. Gli israeliani fuggono indossando la kefiah. L’aereo decolla alle tre e atterra in Israele alle cinque del mattino di sabato. Oggi resta un solo israeliano nel paese, è il viceambasciatore Yisrael Tikochinsky-Nitzan, trasferito in una località “sicura”. Si sa che tre delle guardie rinchiuse nell’ambasciata hanno sparato in aria per allontanare gli egiziani saliti al diciottesimo piano. L’ordine era di “sparare per uccidere” nel caso gli egiziani avessero sfondato anche l’ultima porta. Il capo delle guardie, “Yonatan”, aveva già spedito un sms d’addio alla moglie: “Ti amo”. Quella predata venerdì scorso era stata la prima bandiera israeliana a sventolare in una capitale araba, dal 17 febbraio 1980.